L’approccio partecipativo nei processi decisionali: facilitazione dei percorsi e degli eventi partecipativi

by Tommaso Rossi on 12 Febbraio 2016

Gli approcci di tipo partecipativo stanno avendo una importante diffusione, tanto in ambito privato che in ambito pubblico. Numerose sono le esperienze che si stanno compiendo e con esse l’emergere di nuove figure di gestione o facilitazione dei gruppi e dei processi decisionali.

Oggi risulta sempre più strategico ad esempio per le organizzazioni coinvolgere le risorse umane presenti al proprio interno così come per le amministrazione pubbliche locali riuscire a coinvolgere i propri cittadini nell’indirizzo delle scelte pubbliche. Le aziende si stanno spostando verso modelli meno accentrati, meno direttivi poiché il coinvolgimento dei dipendenti e dei collaboratori è un elemento fondamentale per il buon funzionamento dell’organizzazione stessa.

Allo stesso modo, risulta sempre più strategica per le amministrazioni pubbliche locali la partecipazione dei cittadini alla vita della propria comunità; promuovere l’inclusione dei cittadini significa acquisire conoscenze comuni del territorio molto preziose e responsabilizzare le persone nelle decisioni da prendere.

Per promuovere l’inclusione nei processi decisionali c’è sempre più bisogno di strutturare percorsi ed eventi capaci di coinvolgere le persone per acquisire conoscenze ed informazioni. C’è bisogno di organizzazione e di figure capaci di promuovere la partecipazione attiva.

Si parla a tal proposito di strumenti e di figure capaci di facilitare tali processi. Ma che cos’è in primo luogo la facilitazione? La facilitazione è un processo di guida non direttiva di un gruppo di lavoro, con il supporto di un facilitatore o moderatore. La facilitazione ha come obiettivo quello di aiutare un gruppo a prendere delle decisioni, o anche semplicemente, a consultarsi, in modo costruttivo; promuove la presa di decisioni con un approccio partecipativo, condiviso, plurale ed inclusivo di tutti i punti di vista.

La facilitazione è dunque l’attività centrale di un progetto partecipativo ed è attuata da una figura specifica: il facilitatore.

Chi è il facilitatore? Secondo Pino De Sario, Psicologo sociale e formatore, autore, tra gli altri, del libro “Professione facilitatore. Le competenze chiave del consulente alle riunioni di lavoro e ai forum partecipati, 2005”, il facilitatore è un consulente di processo con alte competenze relazionali che accompagna le organizzazioni a perseguire i risultati progettati.

La facilitazione e la figura del facilitatore acquisiscono rilevanza quando i processi assumono caratteristiche dialogiche, nel momento in cui si abbandona una logica di tipo assembleare tra i partecipanti e si cerca al contrario una interazione forte ed informale.

Il facilitatore si occupa degli aspetti organizzativi ed interpersonali: introduce l’incontro, gestisce l’ordine del giorno o agenda, conduce le discussioni, promuove il dialogo tra i partecipanti, attribuisce il turno di intervento nella conversazione, organizza la tematica, gestisce il tempo a disposizione e le varie fasi di lavoro, cura che tutti abbiano le informazioni necessarie inerenti i temi dell’agenda. Sempre secondo le parole di Pino De Sario, il facilitatore occupa un ruolo neutro sui contenuti e mediano tra gli attori, svolge il ruolo di ponte tra soggetti che possono presentare diversi punti di vista; De Sario delinea un profilo professionale di facilitatore, un consulente nei gruppi e nelle organizzazioni che si occupa di mediare conflitti, problemi ed apprendimenti.

Nuove modalità e nuove figure si stanno dunque affacciando sullo scenario dei processi decisionali e con esse nuove possibilità di coinvolgimento dei soggetti nella elaborazione di proposte e priorità; approcci che derivano da processi di lungo periodo ma che oggi vedono concretamente punti di applicazione e competenze sempre più specifiche.

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applicazione open source per analisi e visualizzazione degli open data Eurostat

by Tommaso Rossi on 3 Febbraio 2016

La disponibilità crescente di open data ben organizzati permette di creare nuovi prodotti e nuovi servizi: una delle fonti maggiormente interessanti da questo punto di vista è quella di Eurostat. Eurostat infatti permette l’accesso automatizzato ai suoi dati tramite varie modalità fra cui un interfaccia specifica (api SDMX) che il download diretto dei dataset completi (Bulk download)

Partendo dalla seconda modalità di accesso I laboratori di Rs Innova hanno realizzato un applicazione lato server denominata app.retesviluppo.it che permette di importare automaticamente i 6000 dataset presenti in Eurostat all’interno del sistema e di creare un workflow (gestito dalla librerie python Flask e Pandas) che li arricchisce con statistiche e classifiche. Come ulteriore output viene generata in tempo reale una mappa interattiva (tecnologia Leafletjs) e una tabella filtrabile.

I dati sono poi scaricabili in formato geojson, compatibile con i più importanti software e servizi gis di visualizzazione dei dati (come ad esempio CartoDB)

L’applicazione è già stata utilizzata con successo da alcune associazioni no – profit come Data Reporter che l’ha utilizzata per arricchire di contenuti e di mappe il proprio quotidiano ildatoquotidiano, testata giornalistica data driven che utilizza open data come fonte principale dei propri articoli.

E’ possibile contribuire al progetto accedendo al nostro repository git, o inviando suggerimenti e segnalazioni a scarselli@retesviluppo.it. Retesviluppo fornisce supporto per la creazione di workflow / cruscotti ad hoc per esigenze specifiche di soggetti pubblici e privati (link)

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Alternanza scuola-lavoro: si può fare (da reteSviluppo)!

by Tommaso Rossi on 28 Gennaio 2016

Nel dibattito sulla “Buona Scuola”, che ha occupato buona parte dell’opinione pubblica sulla stabilizzazione del personale docente precario (tema indubbiamente importante, ma di ancor più forte impatto mediatico), è passato quasi in sordina il nuovo modello di alternanza scuola-lavoro previsto dalla riforma: rivolto a tutti gli studenti del secondo biennio e dell’ultimo anno degli istituti superiori, prevede obbligatoriamente un percorso di orientamento utile ai ragazzi nella scelta che dovranno fare una volta terminato il percorso di studio. Il periodo di alternanza scuola-lavoro si articola in 400 ore per gli istituti tecnici e 200 ore per i licei e si realizza sia attraverso attività dentro la scuola, che fuori da essa (nelle aziende, ad esempio).

Il nuovo modello intende avvicinarsi al cd. “Sistema Duale”, che vede la sua più nota applicazione all’interno del modello tedesco, dove il sistema di istruzione in alternanza è organizzato all’interno della scuola, Berufsschule, e dell’azienda. L’obiettivo è quello di colmare il gap, costantemente lamentato dal mondo produttivo, tra le esigenze professionali delle aziende e quelle detenute dai giovani in uscita dai percorsi scolastici. Allo stesso tempo il nuovo modello vuole essere più attrattivo nei confronti delle giovani generazioni, andando così ad impattare sul tasso di dispersione scolastico, che in Italia raggiunge una delle quote più elevate a livello europeo.

La sperimentazione del Sistema Duale nel nostro Paese consentirà, nel prossimo biennio, a circa 60 mila giovani di poter conseguire i titoli di studio con percorsi formativi che prevedono, attraverso modalità diverse, una effettiva alternanza scuola-lavoro: per una parte dei giovani studenti l’apprendimento in impresa avverrà tramite un contratto di apprendistato di primo livello, mentre per l’altra parte avverrà attraverso l’introduzione dell’alternanza “rafforzata” di 400 ore annue a partire dal secondo anno del percorso di istruzione e formazione professionale.

Anche reteSviluppo crede nella bontà di un modello che cerca di creare reali sinergie tra scuola, istituzioni e mondo produttivo: a tale scopo abbiamo sottoscritto un accordo, con il contributo di Confcooperative, che ci consentirà di ospitare – durante il prossimo mese di febbraio –  5 giovani del Liceo delle Scienze Umane, opzione Economico-Sociale, Niccolò Machiavelli di Firenze. Anche per noi quest’esperienza rappresenta una novità, avendo finora collaborato soprattutto con l’Università, tuttavia riteniamo che proprio il contatto con gli istituti superiori possa essere una sfida interessante e offrire possibilità di contaminazione e apprendimento reciproco tra la nostra realtà e quella della scuola superiore.

Cosa apprenderanno questi 5 ragazzi dall’esperienza con reteSviluppo? Anzitutto si confronteranno con la forma di impresa cooperativa e i suoi meccanismi di funzionamento, apprendendo – e sperimentando sul campo – alcune competenze strettamente legate ai nostri ambiti di attività: ricerca sociale ed economica, partecipazione e cittadinanza attiva, servizi alle imprese, comunicazione. Cosa chiederemo loro? Di essere curiosi, propositivi, di metterci in difficoltà nel rispondere alle loro mille curiosità, di ispirarci nuove idee.

Insomma, non vediamo l’ora di conoscerli. Voi state pure tranquilli, vi racconteremo com’è andata!

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Occupazione, la Sfida del 2016. Per ripartire bisogna condividere

by Tommaso Rossi on 20 Gennaio 2016

Intervista di Monica Pieraccini – giornalista de La Nazione –  a Lapo Cecconi , presidente di reteSviluppo.

Un 2016 di ripresa, ma importante è non abbassare la guardia sul tema lavoro. Secondo Lapo Cecconi, fondatore e presidente di reteSviluppo, società di consulenza che si occupa principalmente di studi economici, sociali e statistici, c’è ancora molto da fare su questo fronte.

Quale quadro in provincia di Firenze?

Ci sono ancora molte ombre. Dal 2009 al 2014 la disoccupazione è cresciuta del 67%. Il lavoro è ancora il problema dei problemi, al quale credo debba dedicare ogni sforzo possibile non solo il governo, ma anche la Regione e le altre istituzioni. Non conforta nemmeno il dato sulla disoccupazione giovanile, che è ad un livello ancora molto alto, dal 34-35%.

Che si può fare?

Innanzi tutto puntare sulla formazione, il lavoro di una volta non c’è più e manca a mio avviso una formazione adatta ai giovani. Bene l’alternanza scuola – lavoro, ma occorre fare di più. Serve creare un percorso vero di avvicinamento delle nuove leve alle aziende più innovative e dinamiche, perché i giovani possano davvero imparare qualcosa per poi essere in grado di affrontare la giungla del mercato del lavoro.

Le parole del 2016. Lavoro, poi?

Condivisione e dati.

Ci spieghi meglio…

La crisi ha costretto le persone a trovare delle soluzioni. Meno soldi e bisogni crescenti hanno portato ad abbandonare l’individualismo sfrenato e ad aprirsi agli altri. Grazie anche alla tecnologia, le persone si sono organizzate condividendo spazi e servizi. Così è nata ad esempio la badante di condominio oppure gli spazi di coworking, due facce della stessa medaglia. Premettono di abbattere i costi e rispondere ad una maggiore efficienza. Credo che anche nel 2016 s svilupperanno ancora di più queste forme di condivisione, creando un nuove opportunità di lavoro.

Per quanto riguarda invece i dati?

Il flusso costante di dati è l’oro del 21 secolo. Se le informazioni che continuamente produciamo tramite smartphone e i portatili vengono studiate, monitorate e trasportate in comportamenti e politiche pubbliche più mirate possono davvero rappresentare una rivoluzione, possono essere un fattore esplosivo creando anche in questo caso nuovi posti di lavoro.

Informazioni che potrebbero essere utilizzate anche per migliorare la mobilità cittadina…

Certo. E infatti su questo mi sento di fare una critica all’amministrazione Nardella, che non ha evidentemente monitorato adeguatamente il flusso di informazioni visti i disagi creati dai cantieri della tramvia. Sarebbe stato opportuno mettere a punto anche un piano integrato sulla mobilità di area vasta. Assurdo, ad esempio, che non si sia pensato prima di fare arrivare la tramvia a Campi e a Bagno a Ripoli. Siamo o non siamo una città metropolitana?

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L’ascolto attivo nei processi partecipativi

by Tommaso Rossi on 4 Gennaio 2016

Far partecipare non significa soltanto promuovere un processo partecipativo ma significa anche utilizzare e sviluppare metodologie inclusive adeguate al coinvolgimento dei cittadini.

Tra queste abbiamo deciso di parlare in questo articolo dell’”ascolto attivo”, una metodologia teorizzata in Italia da Marianella Sclavi, docente di etnografia urbana presso il Politecnico di Milano, nel suo libro “Arte di ascoltare e mondi possibili”.

Secondo Sclavi, l’ascolto per essere “attivo” deve avere a che fare con le dinamiche dell’umorismo e delle emozioni: deve essere aperto e rivolto non solo verso l’altro, ma anche verso se stessi, per ascoltare le proprie emozioni, per essere consapevoli dei limiti del proprio punto di vista.

L’ascolto attivo parte dal presupposto che, nell’interazione, vi sono “archi di possibilità” che diamo per scontati e dei quali non siamo consapevoli all’interno dei quali si inscrivono i nostri comportamenti. Essere consapevoli di queste “cornici”, di cui siamo parte e che condizionano il nostro modo di vedere e di agire, è un punto strategico dell’ascolto attivo.

Uno degli assunti fondamentali di questa metodologia è infatti il seguente: “Se vuoi comprendere quello che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.” L’Ascolto Attivo significa passare dalla contrapposizione “giusto-sbagliato”, “io ho ragione-tu hai torto”, “amico-nemico” ad una situazione in cui ci si pone nella condizione di capire l’interlocutore. Questa metodologia ribalta l’approccio tradizionale del buon osservatore che dovrebbe essere passivo, neutrale; propone al contrario la necessità di abbandonare un approccio razionale nel quale le emozioni sono considerate come disturbatrici della conoscenza e di sposare al contrario un atteggiamento attivo, aperto al dialogo, disposto a mettere in discussione le proprie certezze, attento agli interessi in gioco invece che alle posizioni, dando molta importanza alle percezioni soggettive dell’altro.

Le basi teoriche di questo approccio sono state delineate da studiosi che sostengono la priorità dell’ascolto in un paradigma dialogico (Bachtin, Bube, Heidegger) e dai teorici dei sistemi complessi (Ashby, Bateson, Emery e Trist, Kurt Lewin, Von Foerster).

L’ascolto attivo è sicuramente un approccio complesso ma fondamentale per avviare processi inclusivi che non si limita a registrare opinioni o punti di vista dei cittadini o degli stakeholder ma a creare un vero e proprio dialogo cercando di capire ciò che essi cercano di esprimere.

Vi sono una pluralità di tecniche di ascolto attivo: l’outreach, letteralmente “raggiungere fuori”, ovvero andare a consultare le persone piuttosto che aspettare che queste lo facciano spontaneamente (distribuzione materiale informativo a casa o presso i centri di aggregazione, articoli sui giornali o spot informativi, interventi informativi e di sensibilizzazione all’interno di gruppi specifici ecc..); “l’animazione territoriale” ovvero promuovere la sensibilizzazione e la partecipazione degli attori locali intorno a dei problemi comuni raccogliendo delle informazioni quantitative e qualitative; organizzare “camminata di quartiere” ovvero passeggiate per il quartiere con le persone interessate (piccoli gruppi di cittadini, professionisti, tecnici, funzionari); aprire “punti o sportelli” informativi sul territorio; riunire piccoli gruppi per mettere a fuoco o analizzare un argomento (“focus group”) o per trovare soluzioni creative ai problemi (“brainstorming”, letteralmente “tempesta di cervelli”). L’importante è dare rilevanza alla fase d’ascolto soprattutto nella fasi preliminari di un percorso partecipativo, quando si tratta di avviare un processo, individuare gli attori e le tematiche su cui concentrarsi.

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Da operai a imprenditori, Workers Buyout in Garfagnana (LU): la storia di P.M.I.

by Tommaso Rossi on 23 Dicembre 2015

Chi ha mai sentito parlare di Workers Buyout (WBO)? In pochi, forse, e di certo l’utilizzo di inglesismi per indicare imprese in fallimento recuperate dai lavoratori non aiuta la conoscenza di un fenomeno che, complice la crisi economica, si è notevolmente sviluppato negli ultimi anni: ad oggi nel nostro Paese risultano presenti 69 WBO, concentrati soprattutto in Emilia-Romagna (20) e Toscana (14). Tale concentrazione territoriale (circa la metà dell’intero fenomeno) non pare casuale, ma va verosimilmente ricondotta alla particolare rilevanza che in tali regioni assumono i movimenti cooperativi, le cui caratteristiche connaturate al modello imprenditoriale bene si prestano alla strutturazione dei WBO.

In poche parole, Workers Buyout sta ad indicare un’operazione di “salvataggio” da parte dei dipendenti, che rilevano l’impresa per cui lavorano, in crisi economica o con difficoltà a gestire il ricambio generazionale: la NewCo nasce con l’acquisizione del capitale sociale della vecchia impresa da parte dei propri dipendenti, siano essi dirigenti, impiegati e/o operai, i quali finanziano l’intervento attraverso risparmi personali, il TFR e/o l’anticipo dell’indennità di mobilità.

P.M.I. (Produzione Montaggio Impianti) è una di queste realtà, cooperativa nata a fine 2011 sulle ceneri di un’azienda operante lungo tutta la filiera della produzione impianti, dalla progettazione fino alla commercializzazione. Abbiamo intervistato Ercolano Toni, uno degli 11 coraggiosi dipendenti che ha deciso di diventare imprenditore e cooperatore.

Come è nata l’idea di costituire un WBO?

Nel momento in cui l’azienda per cui lavoravamo è stata messa in liquidazione coatta: un ramo d’azienda era stato rilevato da un grosso player ligure, che allo stesso tempo ci ha spinto per costituire una nuova impresa operante sul lato produzione, in modo tale che non andassero perse le maestranze e le competenze sviluppate negli anni. Abbiamo quindi deciso, in 11 persone tra i 25 dipendenti della vecchia azienda, di mettere su una cooperativa, che ha iniziato a lavorare grazie alle commesse dell’azienda ligure che ci aveva spinti verso il WBO: ancora oggi costituisce il nostro principale committente, ma stiamo lavorando per differenziare sempre più il portafoglio clienti.

Nella fase di costituzione dell’azienda, abbiamo avuto un importante aiuto dalla Lega delle Cooperative, che ci ha indirizzato verso la strada da intraprendere. Il capitale iniziale per costituire l’azienda è venuto dall’anticipo della mobilità.

Prima di questa esperienza, aveva mai pensato all’idea di mettersi in proprio?

Mai, ero sempre stato un dipendente; all’inizio lavoravo in officina e poi mi sono occupato dell’ufficio acquisti.  Mai poi avrei pensato di poter avviare un’esperienza in cooperativa, invece mi sono dovuto ricredere, perché in casi come il nostro la cooperativa ha tirato fuori il meglio delle persone, per la costruzione di una logica imprenditoriale tra persone che, fino a quel momento, avevano sempre lavorato come dipendenti.

Quali sono stati i numeri della vostra crescita?

Siamo partiti nel 2012 con un piccolo piano industriale da 800 mila euro, mentre quest’anno dovremmo avvicinarci a 2 milioni. Sulla base di questa crescita stiamo lavorando ad un nuovo piano industriale, sia pensando ai ricambi di coloro che si avvicinano alla pensione, sia per effettuare nuovi investimenti per macchinari. Dal punto di vista delle risorse umane, siamo partiti in 11 soci, mentre oggi siamo 12 soci lavoratori, 2 dipendenti a tempo indeterminato e 3 collaboratori con contratto di apprendistato. Il nostro obiettivo è quello di allargare la nostra base sociale a tutti i lavoratori, perché ciò crea un altro modo di vivere e sentire l’azienda in cui si lavora, crea responsabilità da parte di tutti, dagli operai fino alle figure che si occupano della parte più manageriale.

Quali sono le vostre prossime sfide?

Come dicevo, stiamo lavorando ad un nuovo piano industriale. Un’ulteriore sfida potrebbe essere data dal ripensare alla nostra organizzazione, nel prevedere l’inclusione di figure professionali più adeguate e preparate ad affrontare certi numeri e aspetti quali i rapporti con le banche, la ricerca di nuovi clienti, ecc. In un’ottica di crescita, è importante riconoscere che alcune competenze non si improvvisano.

Quali sono le condizioni in cui è possibile replicare il modello WBO?

La crisi e le chiusure di aziende hanno portato molte persone, prima dipendenti, a pensare a forme diverse di rapportarsi con il lavoro. Il WBO dà la possibilità alle persone di sperimentarsi come imprenditori, a partire dalle competenze che in precedenza hanno sviluppato come lavoratori. Nei momenti iniziali la cooperativa può essere fondamentale per creare un gruppo coeso e che vada nella stessa direzione. Anche il contesto territoriale è importante: in un’area, come la nostra (Garfagnana, ndr.) dove non vi sono molte opportunità economiche, le persone possono avere più spinta ad uscire fuori dai soliti binari per intraprendere strade nuove, come abbiamo fatto noi.

Crisi come opportunità, quindi, e legame con il territorio.

Esatto. Rispetto al legame tra impresa e territorio, chiudo con un dato per noi significativo: l’anno scorso, tra paghe e contributi, abbiamo distribuito nella nostra zona circa 620 mila euro. Questo è un dato semplice che deve far pensare all’importanza di fare impresa soprattutto all’interno di zone, come la Garfagnana, che sotto il profilo geografico e di infrastrutture presentano un gap rispetto ad altre aree più centrali della Toscana.

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Tommaso RossiDa operai a imprenditori, Workers Buyout in Garfagnana (LU): la storia di P.M.I.

Chi ascolta un consiglio trova un tesoro 

by Tommaso Rossi on 10 Dicembre 2015

Oggi parliamo di università. Fra agosto e settembre l’università di Shanghai e la Qs Intelligence hanno pubblicato due delle più autorevoli classifiche sui migliori atenei mondiali. I risultati? Niente di nuovo. Tra le prime 100 continuano a mancare le italiane. Stesso copione nella top ten, quasi tutta occupata da college angloamericani. Se Shanghai premia Harvard, l’indice Qs invece assegna la medaglia d’oro al Mit degli Stati Uniti.

Per trovare la prima italiana dobbiamo scendere dopo il 100esimo posto con il Politecnico di Torino e la Normale di Pisa. E allora perché ne parliamo? Una novità in effetti c’è. Se le italiane volano giù nel ranking generale, secondo l’incide Qs, salgono invece nella employer reputation. Cos’è? Un indice che misura l’opinione di dei datori di lavoro sulla preparazione offerta ai laureati dei singoli atenei. In poche parole la nostra reputazione è cresciuta. Nella classifica Qs ben quattro italiane compaiono tra le prime 200. Sembra una buona notizia ma, forse, non lo è. Questo risultato è frutto di uno dei principali prodotti d’esportazione italiani: i cervelli dei nostri under 30. L’ottimo risultato della nostra reputazione è merito soprattutto di chi lascia il cuore in Italia ma porta reddito e competenze all’estero.

Il cortocircuito si crea quando chi è partito, a tornare, non ci pensa proprio. E grazie alle proprie capacità attrae investimenti che volano in altri stati. Negli ultimi dieci anni questa scelta è stata compiuta da 700mila persone. Il governo questa estate ha proposto un bonus del 30 percento sulla tassa Irpef per facilitare il rientro dei talenti fuggiti. Un incentivo che rischia di essere debole. Il dato preoccupante infatti non sono le partenze degli universitari, in linea con il resto d’Europa, quanto l’assenza di arrivi in Italia. Le cause non sono né la crisi economica né la mancanza di risorse e prestigio dei nostri atenei ma il divorzio avvenuto tra università e lavoro.

La soluzione per ripartire non è solo tentare di risollevare la domanda domestica ma lavorare per produrre fascino verso chi si trova di fuori dei nostri confini. Che tradotto vuole dire trasformaci in un Eldorado in grado di attrarre capitale umano. Ce lo insegna Antonio Iavarone, medico italiano emigrato negli Stati Uniti negli anni 90 in seguito ad una vicenda di nepotismo e che oggi alla Columbia University di New York è a capo di un team che ricerca una cura ai tumori cerebrali dei bambini.  La sua proposta per prevenire la fuga? Legare a doppio filo università e lavoro in un ecosistema, creando parchi scientifici dove far collaborare istituti di ricerca e imprese. Una filiera corta dove chi esce con una laurea in tasca, bussa alla porta accanto dove ad attenderlo c’è già un ufficio. Un sogno, certo. Ma la strada per la rivoluzione di cui abbiamo bisogno passa da qui. Per costruire la nostra città dell’oro non possiamo non ascoltare i consigli di chi un tesoro l’ha già trovato a migliaia di chilometri di distanza. Ripartiamo da un consiglio d’oro.

E, forse, troveremo l’Eldorado.

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Tommaso RossiChi ascolta un consiglio trova un tesoro 

Sharing Economy nel turismo, innovandolo: Guide Me Right

by Tommaso Rossi on 1 Dicembre 2015

Luca Sini, trentenne sassarese, incarna perfettamente lo spirito della generazione dei “Millennials”, ovvero quei ragazzi nati tra l’inizio degli anni ’80 e la fine degli anni ‘90 perfettamente a proprio agio con le nuove tecnologie digitali, tanto da trasformarle nel proprio lavoro.

Nel suo caso, però, lavoro vuol dire autoimprenditorialità e, soprattutto, Sharing Economy, essendo co-fondatore e CEO di Guide Me Right, una piattaforma digitale tutta Made in Italy che consente ai viaggiatori di provare nuove esperienze di viaggio grazie ai ‘Local Friend’, persone del posto che organizzano itinerari inediti basati sulla filosofia del ‘turismo esperienziale’. Al contrario di altre piattaforme di Sharing Economy, come ad esempio Uber e Airbnb, Guide Me Right non entra in diretta concorrenza con gli operatori tradizionali (in questo caso, le guide turistiche), ripensando piuttosto l’esperienza di viaggio e centrandola maggiormente sulle aspettative del turista.

Lo abbiamo intervistato per capire meglio la filosofia delle piattaforme di Sharing e il perché questi soggetti incontrano oggi una grossa resistenza da parte degli operatori economici tradizionali.

Come nasce Guide Me Right?

Nasce da una combinazione di esperienze professionali e personali di tipo accademico: ho fatto l’Erasmus e poi mi sono trovato ad ospitare degli spagnoli in Sardegna, quindi io stesso ho fatto da Local Friend; ho studiato poi il funzionamento delle agenzie di viaggio on line e, durante un master in Inghilterra, ho studiato i sistemi di rating peer to peer, alla TripAdvisor, nel sistema turistico. Dalla combinazione di queste cose, è venuto fuori lo spunto per Guide Me Right, che si basa sull’idea di viaggiare che piace a me e a tutti quelli che fanno parte del team, ovvero in compagnia di un amico del posto. L’idea è stata presentata nel 2013 allo Start up weekend di Tiscali, dove ha vinto il premio, dandoci quindi la possibilità di far partire il progetto.

Quante persone hanno aderito ad oggi alla piattaforma?

Oggi abbiamo raggiunto i 300 Local Friend in Italia, i quali offrono oltre 900 diverse esperienze di viaggio. Stiamo crescendo abbastanza velocemente: meno di un mese fa avevamo circa 250 Local friend attivi. Il nostro obiettivo è arrivare, entro i prossimi 6 mesi, a 1.000 Local Friend in tutta Italia, ma pure quello di diffondere il servizio in maniera capillare anche ad altri Paesi.

Vi sono alcuni grossi player (Uber, Airbnb) che vengono criticati, perché accusati di fare concorrenza sleale. Queste accuse sono state rivolte anche a voi? Se sì, cosa rispondete a queste critiche?

Queste critiche sono arrivate anche a noi. Dal mio punto di vista non si può generalizzare, perché ogni piattaforma è diversa da tutte le altre, per cui Guide Me Right non può essere paragonata a Uber. Credo che bisogna comunque fare i conti con il processo di liberalizzazione che è in atto negli ultimi anni: se fino a 20 anni fa un commerciante era tranquillo e garantito da una licenza di vendita, improvvisamente queste licenze hanno smesso di avere valore. È inoltre cambiato il meccanismo di costruzione della reputazione delle attività: ormai una certificazione da parte di un ente vale certamente meno del ranking di una determinata attività su TripAdvisor . Chi in passato ha lavorato per acquisire quelle certificazioni, oggi cerca di difendere la  propria posizione; dal mio punto di vista deve cambiare la mentalità e cambiare questo tipo di equilibri: l’ente certificatore non può essere più il pubblico o un privato, ma una comunità di utenti fruitori di un determinato bene o servizio.

A che punto è la normativa italiana sulla Sharing Economy?

C’è un totale vuoto normativo. Ci sono delle norme che ambiscono a regolare delle professioni, ma creano dei problemi perché, oltre ad essere spesso opache, cambiano da regione a regione, a volte contraddicendo la giurisprudenza europea. Il fatto è che le norme ad oggi esistenti sono nate e sono state pensate per un altro tipo di società, ovvero sono regole che andavano bene per il periodo in cui sono state formulate.

Agli albori della Sharing economy le esperienze partivano soprattutto dal basso. Con il tempo si sono però costruiti monopoli, o oligopoli, detenuti da grosse compagnie private. Ritieni che possa essere un rischio per la Sharing economy perdere la propria natura bottom up?

Nella Sharing economy credo sia fondamentale la presenza di grossi player in grado di assicurare tanta domanda e tanta offerta all’interno del marketplace. Sono servizi offerti da non professionisti, per cui occorre che ci sia una vasta offerta garantita da grossi attori che aggregano i soggetti che vi partecipano. Questa concentrazione può essere un rischio? In realtà le piattaforme di Sharing economy si basano sui meccanismi della community, su un sistema di valutazione reciproca degli utenti, su un senso di appartenenza senza i quali non avrebbero ragione di esistere.

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Sharing economy, solo una moda passeggera?

by Tommaso Rossi on 11 Novembre 2015

La Sharing economy, o economia della condivisione, può essere definita un paradigma economico basato non sul concetto di proprietà, ma su quello di accesso e riuso di beni, risorse e servizi sottutilizzati. All’interno di questo paradigma, saltano i classici ruoli detenuti da imprese e consumatori, con questi ultimi che diventano soggetti attivi anche nella fase di produzione e vendita di un bene e/o servizio. Uber e BlaBlaCar (mobilità), Airbnb e Guide Me Right (turismo) sono soltanto alcune delle piattaforme digitali di Sharing economy più conosciute ed utilizzate, rispetto alle quali è nel frattempo nato un acceso dibattito sulla legittimità di tali soggetti ad operare sul mercato in condizioni che i critici definiscono di concorrenza sleale.

L’economia della condivisione non è un fenomeno recente, basti pensare alle banche del tempo – grazie alle quali le persone possono reciprocamente scambiarsi attività, servizi e saperi – o a forme di baratto che consentono un nuovo ciclo di utilizzo per beni non pienamente sfruttati. Il fenomeno tuttavia, complice anche la crisi economica esplosa nella seconda metà del 2008, ha conosciuto una nuova ribalta inizialmente grazie soprattutto a forme organizzative nate dal basso, come i Gruppi di Acquisto Solidali (GAS), le Social street e i coworking.

Il portentoso sviluppo della Sharing Economy osservato negli ultimi anni ha beneficiato soprattutto della possibilità, offerto dalle tecnologie digitali e dai social media, di abbattimento delle distanze fisiche tra domanda e offerta, le quali hanno dato la possibilità di incontrarsi attraverso una piattaforma presente sulla rete Internet. Proprio il World Wide Web ha consentito ad alcune di queste piattaforme di realizzare tassi di crescita sconosciuti per la maggior parte delle imprese tradizionali: Airbnbn, che permette a privati proprietari di immobili di affittare gli stessi ad uso turistico, offre oggi alloggi in oltre 134.000 città sparse in 192 Paesi del mondo. La società, fondata nel 2007, può contare su un’offerta ricettiva di un milione e mezzo di alloggi in tutto il mondo (pur non essendo proprietaria di nessuno di essi), surclassando catene alberghiere internazionali quali Marriott, Hilton e Intercontinental. L’Italia è il terzo mercato mondiale dopo Usa e Francia: sono 180 mila in totale gli immobili disponibili, di cui 18.000 a Roma e 14.000 a Milano, mentre Firenze ne ospita quasi 5.800.

Come accennato, soggetti quali Uber e la stessa Airbnb sono di recente finite sotto l’occhio del ciclone, accusate di concorrenza sleale, sfruttamento di lavoro irregolare ed evasione fiscale. Ciò che è certo, è che queste piattaforme sono nate e cresciute in un contesto normativo che non prevedeva leggi specifiche atte a regolamentarle, anche se la Commissione Europea ha di recente lanciato una road map per normare il settore, non in un’ottica restrittiva ma di tutela delle principali regole della concorrenza e della normativa fiscale.

I dibattiti sulla Sharing economy si vogliono solitamente ridurre all’essere pro o contro di essa, spesso dimenticando che l’economia collaborativa è fatta di diverse sfaccettature, a partire dai modelli in cui il profitto resta il fine principale (Uber, Airbnb) fino a quelli in cui, di converso, le finalità solidaristica e di creazione di community orizzontali prevalgono (social street, co-housing sociale, banche del tempo, ecc.). Ciò che accomuna queste diverse esperienze, tuttavia, è il ruolo riconosciuto all’utente/cliente, che si fa soggetto attivo nella produzione del bene, nella creazione della community di riferimento e nel processo di accreditamento sociale che caratterizza le diverse piattaforme. Allo stesso tempo, poi, appare chiaro che la Sharing economy non costituirà un fuoco fatuo, quanto piuttosto un nuovo modo di intendere le relazioni economiche e sociali, che probabilmente non soppianterà il tradizionale modello capitalistico, ma che sicuramente si affiancherà ad esso .

Il tema è molto ampio, probabilmente troppo per essere affrontato in maniera esaustiva all’interno di un articolo. Per questo motivo torneremo presto sull’argomento, anche interpellando alcune delle piattaforme più conosciute nel panorama italiano della Sharing Economy.

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Tommaso RossiSharing economy, solo una moda passeggera?

La partecipazione dei cittadini attraverso il bilancio partecipativo

by Tommaso Rossi on 8 Ottobre 2015

Contoanchio: l’esperienza del Comune di Campi Bisenzio

La partecipazione dei cittadini quale possibilità di influire sulle scelte di un’amministrazione pubblica ha visto negli ultimi anni una diffusione sempre maggiore tanto che, parallelamente ad istituti già previsti ed utilizzati quali i referendum, le consultazioni o le petizioni, sono prolificate le esperienze di percorsi partecipativi. Esperienze eterogenee che hanno un minimo comun denominatore quale quello di avviare forme innovative di coinvolgimento dei cittadini di fianco alle classiche forme di coinvolgimento della democrazia rappresentativa: forme strutturate di ascolto e di dialogo per ricostruire un rapporto di fiducia con le istituzioni, per ricostruire la coesione sociale, per programmare ed essere più vicini possibile alle esigenze delle persone. Un approccio quello partecipativo fondato sull’ascolto, sull’inclusione, sull’interazione, sulla creazione di piccoli gruppi di discussione coordinati da facilitatori per giungere all’elaborazione dal basso di proposte fatte dalla cittadinanza.

Tra le varie forme innovative di coinvolgimento dei cittadini vi è sicuramente quella del bilancio partecipativo in quanto in grado di promuovere il coinvolgimento su uno dei documenti più importanti sui quali l’amministrazione è chiamata a decidere: il bilancio comunale. Il bilancio partecipativo è una forma di partecipazione diretta dei cittadini alla vita della propria città attraverso il quale si consente loro di avere un ruolo attivo nello sviluppo e nella elaborazione delle politiche comunali. Nel bilancio partecipativo, la popolazione è invitata a stabilire delle priorità in vari campi o settori in merito a come investire una determinata somma economica messa a disposizione dall’amministrazione comunale.

A partire dagli anni ’90, molte amministrazioni hanno promosso esperienze di questo tipo. Tra queste il Comune di Campi Bisenzio ha deciso di intraprendere nel 2015 Contoanchio, la prima esperienza di bilancio partecipativo per questa amministrazione comunale.

Vediamo da vicino questa positiva esperienza coordinata dalla società reteSviluppo. L’amministrazione ha suddiviso il territorio in tre zone. Il primo bilancio partecipativo è stato dedicato ad una zona specifica (Sant’Angelo, San Piero a Ponti, San Cresci, San Donnino). Il Comune ha messo a disposizione 200mila euro. L’oggetto del processo partecipativo sono state le tematiche relative a: scuole (manutenzione straordinaria); viabilità (illuminazione pubblica, marciapiedi, piccoli manti stradali); verde urbano (arredo urbano, attrezzature  ludiche, sistemazione e manutenzione straordinaria dei percorsi pedonali). Hanno partecipato i cittadini facenti parte di un campione rappresentativo sotto il profilo demografico e sociale e quelli che si sono autocandidati. Il percorso è stato caratterizzato da incontri pubblici di presentazione, di discussione e di restituzione dei progetti elaborati dai cittadini. I partecipanti hanno avuto la possibilità di chiedere incontri con tecnici ed esperti per avere maggiori informazioni ed approfondimenti. I cittadini sono stati messi a conoscenza ed hanno analizzato il bilancio ed il rendiconto delle attività dell’amministrazione, hanno formulato idee progettuali che gli uffici comunali hanno analizzato esprimendo per ciascuna un giudizio di fattibilità. I progetti elaborati dai partecipanti sono stati poi messi in votazione (hanno potuto votare i cittadini residenti di almeno 16 anni di età). È stata prevista una somma massima per intervento di 40mila euro.

L’esperienza di Campi Bisenzio può essere considerata a tutti gli effetti una buona pratica considerato il numero dei partecipanti (128) e soprattutto il numero dei votanti (1022) su un totale di circa 15 mila abitanti. Sono stati finanziati complessivamente 8 progetti elaborati dai cittadini. L’esperienza verrà ripetuta anche nel 2016 e nel 2017 coinvolgendo le zone rimanenti.

L’utilizzo di questo strumento si è dimostrato strategico soprattutto in questa fase storica caratterizzata da scarsità di risorse pubbliche, in cui si corre il rischio di generare una profonda divaricazione tra il principio del consenso e la capacità dell’amministrazione pubblica di rispondere ai reali bisogni della comunità. Allo stesso tempo, anche al fine di un consenso, l’amministrazione ha sentito la necessità di allargare al maggior numero possibile di attori la scelta delle priorità a livello locale. La partecipazione dei cittadini al governo della città, pertanto, è risultata necessaria a rispondere, in modo più efficace, ai bisogni della comunità locale in un’ottica di responsabilizzazione e coinvolgimento diretto dei cittadini.

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Tommaso RossiLa partecipazione dei cittadini attraverso il bilancio partecipativo