Chi ascolta un consiglio trova un tesoro 

Oggi parliamo di università. Fra agosto e settembre l’università di Shanghai e la Qs Intelligence hanno pubblicato due delle più autorevoli classifiche sui migliori atenei mondiali. I risultati? Niente di nuovo. Tra le prime 100 continuano a mancare le italiane. Stesso copione nella top ten, quasi tutta occupata da college angloamericani. Se Shanghai premia Harvard, l’indice Qs invece assegna la medaglia d’oro al Mit degli Stati Uniti.

Per trovare la prima italiana dobbiamo scendere dopo il 100esimo posto con il Politecnico di Torino e la Normale di Pisa. E allora perché ne parliamo? Una novità in effetti c’è. Se le italiane volano giù nel ranking generale, secondo l’incide Qs, salgono invece nella employer reputation. Cos’è? Un indice che misura l’opinione di dei datori di lavoro sulla preparazione offerta ai laureati dei singoli atenei. In poche parole la nostra reputazione è cresciuta. Nella classifica Qs ben quattro italiane compaiono tra le prime 200. Sembra una buona notizia ma, forse, non lo è. Questo risultato è frutto di uno dei principali prodotti d’esportazione italiani: i cervelli dei nostri under 30. L’ottimo risultato della nostra reputazione è merito soprattutto di chi lascia il cuore in Italia ma porta reddito e competenze all’estero.

Il cortocircuito si crea quando chi è partito, a tornare, non ci pensa proprio. E grazie alle proprie capacità attrae investimenti che volano in altri stati. Negli ultimi dieci anni questa scelta è stata compiuta da 700mila persone. Il governo questa estate ha proposto un bonus del 30 percento sulla tassa Irpef per facilitare il rientro dei talenti fuggiti. Un incentivo che rischia di essere debole. Il dato preoccupante infatti non sono le partenze degli universitari, in linea con il resto d’Europa, quanto l’assenza di arrivi in Italia. Le cause non sono né la crisi economica né la mancanza di risorse e prestigio dei nostri atenei ma il divorzio avvenuto tra università e lavoro.

La soluzione per ripartire non è solo tentare di risollevare la domanda domestica ma lavorare per produrre fascino verso chi si trova di fuori dei nostri confini. Che tradotto vuole dire trasformaci in un Eldorado in grado di attrarre capitale umano. Ce lo insegna Antonio Iavarone, medico italiano emigrato negli Stati Uniti negli anni 90 in seguito ad una vicenda di nepotismo e che oggi alla Columbia University di New York è a capo di un team che ricerca una cura ai tumori cerebrali dei bambini.  La sua proposta per prevenire la fuga? Legare a doppio filo università e lavoro in un ecosistema, creando parchi scientifici dove far collaborare istituti di ricerca e imprese. Una filiera corta dove chi esce con una laurea in tasca, bussa alla porta accanto dove ad attenderlo c’è già un ufficio. Un sogno, certo. Ma la strada per la rivoluzione di cui abbiamo bisogno passa da qui. Per costruire la nostra città dell’oro non possiamo non ascoltare i consigli di chi un tesoro l’ha già trovato a migliaia di chilometri di distanza. Ripartiamo da un consiglio d’oro.

E, forse, troveremo l’Eldorado.

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