Geografia della crisi Toscana provincia per provincia

by Tommaso Rossi on 1 Ottobre 2014

 

Firenze ha retto l’onda della crisi con l’export, trainato da moda e meccanica, garantendo occupazione con il turismo. Massa è stata aggredita nell’edilizia e nelle costruzioni, e la ristorazione, il commercio e i servizi non hanno supplito a quanto la crisi ha «mangiato» nel resto della sua economia. A Prato invece l’occupazione è aumentata, però solo grazie a produzioni a basso valore aggiunto. Sono solo tre delle 10 fotografie che arrivano dai dati elaborati da Rete Sviluppo.

Le province che complessivamente sono andate meglio nell’ultimo periodo sono Firenze, Pisa (dove l’occupazione e l’aumento delle imprese sono dati positivi legati al turismo e all’hi-tech), Arezzo (con un exploit del settore oro, dopo anni di stallo) e Lucca (ma soprattutto, quasi solamente, grazie alle cartiere). Quelle peggiori sono state Massa, Prato (dove l’abbigliamento ha sostituito il tessile, cioè una produzione meno «ricca») ma anche Livorno. Anzi, per la (ex) principale provincia siderurgica e industriale della Toscana, se i dati fossero stati raccolti fin dall’inizio della sua crisi (metà del decennio scorso) il giudizio sarebbe ancora più severo.

Nel mezzo, con alterne fortune, si trovano Pistoia, dove l’export (soprattutto da i vivai) tiene ma non dà segnali sul fronte dell’occupazione. A Siena la farmaceutica traina l’export ma la crisi di Mps si fa sentire soprattutto sul consumo al dettaglio e sul valore aggiunto. Le tante crisi delle industrie grossetane vengono (pochissimo) attenuate dal buon successo dell’export, legato all’agricoltura.

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Se invece si va a vedere un periodo più lungo, cioè gli anni della crisi (dal 2009 al 2013) si nota come proprio a Massa ci sia il dato migliore per imprese attive (confronto primo trimestre 2009-2014): l’1,98 in più, così come a Prato (0,47%), mentre tutte le altre, comprese Pisa e Firenze, hanno un saldo negativo, fino al «fanalino di coda» Lucca (-5,31%). Lapo Cecconi, presidente di Rete Sviluppo, e il ricercatore Marco Scarselli spiegano: «Massa ha visto nascere più aziende, ma sono dei settori del terziario di basso livello, con scarso valore aggiunto. È la provincia con più “neet” (ragazzi che non studiano, non cercano lavoro e non si formano) della Toscana». Prato, nonostante i dati sul numero di imprese in positivo (+0,7% confronto primo trimestre 2013-2014) è proprio la città che ha retto peggio alla crisi. Prato ha infatti una vivacità imprenditoriale che non aumenta il Pil procapite: il tessile è stato sostituito dall’abbigliamento, soprattutto di ditte cinesi, quindi si lavora di più ma si “guadagna” di meno. Nel lungo periodo, forse, sarà un vantaggio. Nel breve, è un problema. Lo stesso che hanno avuto, nei 5 anni presi in considerazione dalle analisi, anche Lucca, Pistoia, Siena e Grosseto: quelle che hanno subito di più la crisi. E anche i segnali positivi di Grosseto sono soprattutto un “effetto rimbalzo”. Dal fondo, insomma, si può risalire.

 

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Sempre più imprese stipulano il “Contratto di rete” . Da inizio 2013 +25%.

by Tommaso Rossi on 8 Luglio 2014

Sono sempre di più le imprese che hanno deciso di mettersi in gioco e di affrontare i mercati globali con un nuovo strumento, il cosiddetto contratto di rete, che permette alle PMI che la sottoscrivono di fare squadra su progetti condivisi che, per dimensione, complessità e capacità innovativa, una singola impresa non potrebbe sostenere.

Secondo i dati INFOCAMERE elaborati da reteSviluppo oggi sono ben 7,870 le imprese coinvolte in 1,590 contratti di rete ed il numero è in costante crescita:  negli ultimi 18 mesi sono stati attivati 260 nuovi contratti e circa 2000 sono le imprese (+24,8%) che sono entrate a far parte delle reti. Ad ulteriore conferma di un trend in ascesa gli ultimi dati maggio-giugno segnano un ulteriore aumento del 5,2% nelle imprese coinvolte.

Ci troviamo di fronte ad una popolazione di imprese mediamente più dinamica della media nazionale: nelle reti, infatti, è forte la presenza di aziende che si occupano di manifattura hi-tech e di servizi ad alto contenuto di conoscenza. Fra le imprese dei servizi (51,6% del totale) ben 1 su 2 si occupa di servizi avanzati, fra le imprese manifatturiere (36,2% del totale) 1 su 3 è hi-tech e fra  le imprese di costruzioni (12,2 %)  più di 1 su 2 è svolge attività specializzate.

Infografica reti di impresa

Secondo Marco Scarselli, ricercatore di reteSviluppo – ente di ricerca spin-off dell’Università di Firenze – “bene l’adozione del contratto da parte delle imprese più dinamiche ma è necessario incentivarne l’utilizzo anche da parte di quei settori del Made in Italy e dei distretti industriali per il quale il contratto è stato pensato e nei quali ancora ha avuto una modesta applicazione

Le reti di imprese permettono del resto, da un lato, il mantenimento dell’indipendenza e dell’identità delle singole imprese partecipanti alla rete e, dall’altro, il miglioramento della dimensione necessaria per competere sui mercati globali.

Si tratta, pertanto, di uno strumento adatto al tessuto imprenditoriale italiano, composto da micro, piccole e medie imprese molto efficaci ma spesso incapaci di competere in termini di innovazione ed internazionalizzazione con imprese più strutturate e di maggiori dimensioni.

In tale contesto è chiaro allora che la parola d’ordine è innovazione”.

E proprio per tale motivo il D.L. n.78/10 ha istituito un’agevolazione fiscale, a favore delle imprese aderenti a un contratto di rete, consistente in un regime di sospensione di imposta sugli utili d’esercizio accantonati ad apposita riserva e destinati al fondo patrimoniale per la realizzazione degli investimenti previsti dal programma di rete, che abbia ottenuto la preventiva asseverazione da parte degli organismi abilitati.

E anche le Regioni, a ben vedere, nell’ambito dei loro poteri, potrebbero intervenire con agevolazioni fiscali, per esempio in materia di Irap.

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Tommaso RossiSempre più imprese stipulano il “Contratto di rete” . Da inizio 2013 +25%.

Money transfer e riciclaggio nella comunità cinese tra Firenze e Prato

by Tommaso Rossi on 4 Luglio 2014

Negli ultimi mesi nell’area metropolitana toscana, in particolare a Firenze e a Prato, sono aumentate le segnalazioni di operazioni finanziarie sospette a carico di cittadini stranieri, operazioni che provengono, in via prioritaria, da alcuni Paesi ‘a rischio’. La Cina in questo campo primeggia incontrastata: più del 40% delle segnalazioni di operazioni sospette a carico dei cittadini stranieri riguarda infatti cinesi.

Milioni di euro partono da Prato e Firenze, con destinazione Cina, tramite agenzie di money transfer, passando spesso da anonime fiduciarie e dalla cosiddetta banca di “tramitazione”, ossia la banca attraverso la quale transita il denaro inviato dal money transfer per essere successivamente veicolato alla sua destinazione finale (in alcuni casi, la stessa Bank of China, banca presente in Italia fin dal 1996 e il cui azionista di maggioranza, attraverso la Central Huijin Investment, è niente meno che lo Stato cinese). Secondo i dati della Banca d’Italia, in provincia di Firenze dal 2008 – data di inizio della crisi economica – ad oggi le rimesse cinesi verso la madrepatria ammontano ad oltre mezzo miliardo di euro, circa 94 milioni l’anno. Ancora più rilevante il fenomeno a Prato dove, nello stesso periodo, il territorio ha assistito ad un vero e proprio fiume di denaro in uscita verso la Cina: 267 milioni di euro ogni anno. Non tutto questo denaro è frutto di attività illecita, ma allo stesso tempo è altamente probabile che una parte del fenomeno sia rimasta sotto traccia.

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Già un lavoro su capital flight e paradisi fiscali del Centro Studi Strategici Internazionali imprenditoriali dell’Università di Firenze svelava che tramite filiali colluse di agenzie di money transfer vengono dunque trasferiti i frutti dello sfruttamento del lavoro nero, della contraffazione e dell’evasione fiscale mediante migliaia di tranches sottosoglia di segnalazione, spesso a nome di persone inesistenti o decedute. Alla base di tutto, purtroppo, vi è spesso la clandestinità, che va ad ingrossare le file della manodopera a nero e a basso costo (proprio perché clandestina), utilizzata dai cosiddetti confezionisti cinesi, i quali guadagnano anche con un altro “trucchetto” fiscale, peraltro incentivato dalle norme della madre patria cinese: sull’enorme flusso del denaro dall’Italia alla Cina può infatti influire anche il fatto che il governo cinese concede un notevole credito di imposta a chi esporta tessuti. Così le fatture in partenza dalla Cina sono sovrastimate (per incassare più credito di imposta), mentre quelle in arrivo in Italia sono sottostimate (per pagare meno Iva e dazi). Il destinatario, però, deve comunque poi pagare la differenza e lo fa appunto, a nero, attraverso i money transfer.

I dati della Banca d’Italia, elaborati sulla base delle segnalazioni degli sportelli money transfer, rivelano negli ultimi anni un crollo delle rimesse inviate da Prato e Firenze in Cina, tali dati però sono palesemente contraddetti da quanto invece emerge dalle indagini della Guardia di Finanza, che, anche recentemente, hanno dimostrato che solo alcuni money transfer pratesi hanno in realtà inviato in Cina più di tutte le rimesse che risultavano ufficialmente inviate da tutti gli sportelli della provincia di Prato secondo i dati Bankitalia. Il fenomeno riguarda naturalmente anche Firenze e non solo con riferimento alle rimesse tramite money transfer, tanto che già nel 2011 la Prefettura e la Camera di Commercio di Firenze avevano preparato un vademecum per le imprese su legalità e sicurezza in cui veniva trattato il tema delle transazioni di denaro con l’estero.

Recenti indagini hanno inoltre scoperchiato un giro di evasione per centinaia di milioni di euro: importatori di nazionalità cinese ed italiana immettevano nel territorio comunitario merci di origine e provenienza cinese, dichiarando valori imponibili assolutamente ‘fuori mercato’ e comunque apparentemente inidonei a consentire anche la sola copertura dei costi delle materie prime contenute nelle merci importate. Dietro tali elementi c’era dunque il sospetto di contrabbando doganale aggravato di tessuti, oltre alla commissione di altri reati di natura fiscale. La metodologia fraudolenta si basava in particolare sull’utilizzo di aziende, appositamente costituite, c.d. ‘cartiere’, utilizzate per brevi periodi, prive di una vera e propria struttura operativa (depositi e magazzini), economica e finanziaria, i cui rappresentanti legali, dietro il pagamento di un compenso, accettavano di figurare come titolari o legali rappresentanti delle stesse, senza svolgerne le relative funzioni. Le suddette cartiere all’atto dell’importazione, per non versare l’Iva all’Erario, ricorrevano alla procedura del deposito Iva in regime di sospensione d’imposta. Nello specifico, dopo aver estratto la merce mediante l’emissione di autofattura, la consegnavano direttamente alle ditte cinesi interessate, che in questo modo determinavano un’ingente evasione fiscale e concorrenza sleale nel settore commerciale.

Lo schema di tale tipo di frode è (purtroppo) tipico ed ormai ben conosciuto, basato sullo sfruttamento della possibilità di importare beni senza il pagamento dell’Iva attraverso la loro introduzione in depositi fiscali presenti sul territorio nazionale. La possibilità di estrarre i beni dal deposito fiscale senza che vi sia alcun effettivo esborso d’imposta viene quindi utilizzata dalle società organizzatrici dell’attività fraudolenta per interporre fittiziamente nelle operazioni di estrazione operatori di loro creazione, che non sono altro che le ‘società fantasma’ precedentemente descritte. L’utilizzo dei suddetti operatori commerciali interposti consente inoltre di creare indebiti crediti IVA a favore delle società destinatarie, alle quali le merci vengono successivamente vendute, tramite una vendita nazionale. Formalmente poi le dichiarazioni doganali vengono presentate a nome dei soggetti economici di comodo, al fine di rendere di più difficile individuare la portata della frode, frazionando e celando le reali responsabilità nell’illecito, anche nella prospettiva di ostacolare un’eventuale azione di recupero dei tributi evasi. Il tutto con la complicità di società esportatrici e case di spedizioni, che predispongono o fanno predisporre all’estero la documentazione commerciale e di trasporto necessaria ad aggirare i controlli doganali.

Secondo Lapo Cecconi, ricercatore di reteSviluppo – ente di ricerca spin-off dell’Università di Firenze – le indagini della Guardia di Finanza rivelano sistemi illegali dell’imprenditoria cinese solo all’apparenza complessi, che in realtà sfruttano una regolamentazione dei mercati lacunosa su molti aspetti. Il risultato è che in questi ultimi anni il territorio fiorentino e pratese si sono trovati a tentare di ‘fermare il mare con le mani’: ogni giorno milioni di euro abbandonano queste province, fuoruscendo quindi dal tessuto produttivo locale per dirigersi verso la Cina e altri Paesi. Lasciando per un attimo in secondo piano tutti quegli elementi relativi all’illegalità diffusa e all’evasione fiscale che caratterizza i sistemi che abbiamo descritto, vi è poi un discorso legato alla mancanza di liquidità del territorio, in un periodo storico in cui il sistema bancario evidentemente non sta facendo fino in fondo il proprio dovere di supporto al sistema produttivo. In questo momento siamo come un acquedotto pieno di piccoli fori: se non lo ripariamo per tempo il rischio di restare senza adeguate risorse finirà per diventare sempre più concreto.

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Tommaso RossiMoney transfer e riciclaggio nella comunità cinese tra Firenze e Prato

Impresa sociale: se non ora, quando?

by Tommaso Rossi on 13 Novembre 2013

Estratto dall’intervista a Salvatore Natoli, a cura di Massimo Campedelli, uscita su Animazione Sociale (n. 275, agosto/settembre 2013) – “Tempo di imprese che producono beni per il territorio”

Imprese sociali, servizi e associazioni si chiedono come riposizionarsi dentro la crisi che mette in dubbio non solo il modello economico-finanziario finora conosciuto, ma anche lo stile di vita e di consumo che lo ha caratterizzato. Questa connessione tra economia e sviluppo è messa in evidenza da Salvatore Natoli, filosofo, descrivendo l’idea di crescita -forza propulsiva dell’economia- come intimamente connessa con il concetto di sviluppo; “senza crescita non c’è lavoro, senza lavoro non si produce consumo e senza consumo l’economia non produce ricchezza e benessere”.

Nel XX secolo la possibilità di aumentare il livello di ricchezza complessiva di un paese era agganciata all’aumento dei consumi perché allora era possibile ancora “allargare” i consumi.

“ In quegli anni, il Paese [Italia] ha avuto una grande possibilità di consumo perché esistevano enormi aree povertà e quindi era possibile creare, inventare il consumatore, i consumatori”.

Oltre all’aspetto economico, negli anni del dopoguerra in Italia si assisteva anche a una rinascita della società civile, dopo la repressione fascista. Si pensi alla Costituzione, che viene scritta in quegli anni in una “prospettiva etica di sviluppo”.

Secondo questa lettura i consumi hanno liberato il nostro Paese dalla schiavitù della necessità: la possibilità di consumare ha affrancato la popolazione italiana dal bisogno, dalla malattia e dalla mancanza di igiene. Anche negli anni successivi, quando si è sentita la necessità di saziare bisogni più complessi, con beni più sofisticati, si pensi alla lavatrice, si è sempre risposto a una necessità di liberazione, in questo caso delle donne dalla fatica dei lavori domestici.

Ma allora, questo meccanismo, quando si è inceppato? Quando abbiamo iniziato a porci delle domande sulla sostenibilità del sistema, proiettandoci in una serie interminabile di dilemmi come quello riguardante il caso ILVA. Si deve scegliere tra la salute e il lavoro?

Ma se da una parte ci rendiamo conto dell’insostenibilità di questo modello di sviluppo, dall’altra troviamo forti resistenze per modificarlo. La difficoltà principale risiede nella trasformazione del concetto di bisogno, che è passato dall’essere inteso come necessità di liberazione da qualcosa, a essere considerato come una condizione naturale.

“Se negli anni cinquanta impiantare uno scaldabagno era liberarsi da un bisogno (fare una doccia), oggi lo scaldabagno è una “condizione naturale”, come se ci fosse stato sempre”.

Questo meccanismo di naturalizzazione dei bisogni è incentivato dall’industria stessa, immettendo sempre nuovi prodotti che, drogando la società, rendono dipendenti al loro consumo. Cambia così il concetto di libertà, che “non è la capacità critica di scelta, ma avere o no accesso a consumi che spesso rispondono a bisogni non essenziali, ormai naturalizzati”.

Se tutti i mali non vengono per nuocere, la crisi del 2008 potrebbe essere un’occasione per mettere in discussione il modello economico e di vita che l’ha determinata. “Bisogna approfittare dell’arretramento dei consumi per pensare a stili di vita diversi, ridefinendo l’ordine delle necessità, uscendo dalla condizione di consumatori passivi…per diventare consumatori attivi”. Dobbiamo tornare al senso critico insito nel concetto di scelta che è racchiuso a sua volta nel concetto di libertà.

Per incentivare un consumo consapevole e critico non basta educare. È necessario incidere anche sui sistemi di produzione. Il territorio può essere il livello più adatto per mettere in atto questo tipo di mutamento, perché permette di capire più facilmente quanto un investimento possa essere vantaggioso.

“Abbiamo bisogno di imprese che lavorino su problemi locali”.

A questo punto arriviamo a esporre il concetto di impresa sociale. Va innanzitutto detto che, se da una parte ogni impresa è sociale perché comunità di lavoratori titolari di diritti, dall’altra non è detto che il prodotto dell’impresa sia sempre sociale. È questo il fattore discriminante. Come dice Natoli, “produrre sostegno sociale non vuol dire andare incontro a una scelta aleatoria di quel che si può o si vuole comprare o meno, ma soddisfare un bisogno sociale reale di “questo” territorio”. É questo che fa la differenza tra un sistema di sostegno all’handicap e un’impresa che fabbrica lenti a contatto. Un problema di handicap non può essere trasferito come un’occhiale, che può essere prodotto e venduto in tutto il mondo. “Il bene sociale è soddisfare i bisogni del territorio che esigono una soluzione qui e ora perché non “trasferibili”, delocalizzabili come altre produzioni”.

L’impresa che vuole qualificarsi come sociale ha anche l’importante compito di generare “beni di relazione”, deve cioè creare dei “sistemi di amicizia”, cioè “possibilità in cui le persone possano stare insieme, … [e possano] sviluppare azioni di vita collettiva, movimenti associativi in cui il rapporto con l’altro diventa un rapporto di reciproca generosità”. Per rendere tutto questo reale si avverte la necessità di costruire spazi pubblici.

Per attivare questa serie di processi si fa riferimento a una politica orizzontale, un modo di fare politica cioè che vede i cittadini impegnati nella loro funzione di “pressione per ripensare modelli di sviluppo e di impresa … che deve essere continua” e i rappresentanti come attori che recepiscono in modo attento questa pressione che li guiderà nelle proprie scelte.

Per concludere Natoli ci ricorda che

“la caratteristica delle democrazie è che non sono nelle condizioni di eleggere i migliori, ma possono “revocare i peggiori”. La competenza democratica non ha la capacità di identificare il meglio, la capacità delle democrazie è risanarsi.” .

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La febbre da start up…qualcosa ha prodotto!

by Tommaso Rossi on 12 Aprile 2013

Quasi non se ne può più, ormai sembra che tutti siano diventati startupper, imprenditori innovativi e pionieri impavidi.

Ti giri per strada e qualcuno ti nomina di iniziative legate alle start up, di incontri con i venture capitalist, di incubatori tecnologici e di spazi per il coworking. Il nome straniero non aiuta, Start up non sembra possa divenire una parola simpatica e alla portata di tutti. Per intendersi, le Start up sono aziende che nascono da zero attorno ad un’idea innovativa. Sono state la formula americana del successo della Silicon Valley, esportata in molte parti del mondo e approdata anche in Italia. Il ministro Passera un anno fa ha presentato una legge specifica per il supporto alla nascita delle imprese innovative, e nel recente Cresci Italia del dicembre scorso, cosa rara, sono state inserite alcune agevolazioni fiscali.

Questi interventi normativi sono stati accompagnati da un’importante campagna informativa, promozionale e pubblicitaria legata al brand Start up. Sono nati blog specializzati, movimenti di opinione, associazioni, progetti imprenditoriali e un flusso imponente di informazioni. Poco male, anzi molto bene. Ma fortunatamente non solo questo. Ecco la buona notizia di un impegno che sta portando ad alcuni risultati, fortunatamente tangibili. Nei primi tre mesi dell’anno sono nate 307 start up e ai primi di aprile siamo a quota 453. Con questi chiar di luna, direi che anche se start up non è una parola simpatica, è bene tenercela stretta!

Link collegati:

H-FARM

Progetto RENA

WORKING CAPITAL

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