Da operai a imprenditori, Workers Buyout in Garfagnana (LU): la storia di P.M.I.

by Tommaso Rossi on 23 Dicembre 2015

Chi ha mai sentito parlare di Workers Buyout (WBO)? In pochi, forse, e di certo l’utilizzo di inglesismi per indicare imprese in fallimento recuperate dai lavoratori non aiuta la conoscenza di un fenomeno che, complice la crisi economica, si è notevolmente sviluppato negli ultimi anni: ad oggi nel nostro Paese risultano presenti 69 WBO, concentrati soprattutto in Emilia-Romagna (20) e Toscana (14). Tale concentrazione territoriale (circa la metà dell’intero fenomeno) non pare casuale, ma va verosimilmente ricondotta alla particolare rilevanza che in tali regioni assumono i movimenti cooperativi, le cui caratteristiche connaturate al modello imprenditoriale bene si prestano alla strutturazione dei WBO.

In poche parole, Workers Buyout sta ad indicare un’operazione di “salvataggio” da parte dei dipendenti, che rilevano l’impresa per cui lavorano, in crisi economica o con difficoltà a gestire il ricambio generazionale: la NewCo nasce con l’acquisizione del capitale sociale della vecchia impresa da parte dei propri dipendenti, siano essi dirigenti, impiegati e/o operai, i quali finanziano l’intervento attraverso risparmi personali, il TFR e/o l’anticipo dell’indennità di mobilità.

P.M.I. (Produzione Montaggio Impianti) è una di queste realtà, cooperativa nata a fine 2011 sulle ceneri di un’azienda operante lungo tutta la filiera della produzione impianti, dalla progettazione fino alla commercializzazione. Abbiamo intervistato Ercolano Toni, uno degli 11 coraggiosi dipendenti che ha deciso di diventare imprenditore e cooperatore.

Come è nata l’idea di costituire un WBO?

Nel momento in cui l’azienda per cui lavoravamo è stata messa in liquidazione coatta: un ramo d’azienda era stato rilevato da un grosso player ligure, che allo stesso tempo ci ha spinto per costituire una nuova impresa operante sul lato produzione, in modo tale che non andassero perse le maestranze e le competenze sviluppate negli anni. Abbiamo quindi deciso, in 11 persone tra i 25 dipendenti della vecchia azienda, di mettere su una cooperativa, che ha iniziato a lavorare grazie alle commesse dell’azienda ligure che ci aveva spinti verso il WBO: ancora oggi costituisce il nostro principale committente, ma stiamo lavorando per differenziare sempre più il portafoglio clienti.

Nella fase di costituzione dell’azienda, abbiamo avuto un importante aiuto dalla Lega delle Cooperative, che ci ha indirizzato verso la strada da intraprendere. Il capitale iniziale per costituire l’azienda è venuto dall’anticipo della mobilità.

Prima di questa esperienza, aveva mai pensato all’idea di mettersi in proprio?

Mai, ero sempre stato un dipendente; all’inizio lavoravo in officina e poi mi sono occupato dell’ufficio acquisti.  Mai poi avrei pensato di poter avviare un’esperienza in cooperativa, invece mi sono dovuto ricredere, perché in casi come il nostro la cooperativa ha tirato fuori il meglio delle persone, per la costruzione di una logica imprenditoriale tra persone che, fino a quel momento, avevano sempre lavorato come dipendenti.

Quali sono stati i numeri della vostra crescita?

Siamo partiti nel 2012 con un piccolo piano industriale da 800 mila euro, mentre quest’anno dovremmo avvicinarci a 2 milioni. Sulla base di questa crescita stiamo lavorando ad un nuovo piano industriale, sia pensando ai ricambi di coloro che si avvicinano alla pensione, sia per effettuare nuovi investimenti per macchinari. Dal punto di vista delle risorse umane, siamo partiti in 11 soci, mentre oggi siamo 12 soci lavoratori, 2 dipendenti a tempo indeterminato e 3 collaboratori con contratto di apprendistato. Il nostro obiettivo è quello di allargare la nostra base sociale a tutti i lavoratori, perché ciò crea un altro modo di vivere e sentire l’azienda in cui si lavora, crea responsabilità da parte di tutti, dagli operai fino alle figure che si occupano della parte più manageriale.

Quali sono le vostre prossime sfide?

Come dicevo, stiamo lavorando ad un nuovo piano industriale. Un’ulteriore sfida potrebbe essere data dal ripensare alla nostra organizzazione, nel prevedere l’inclusione di figure professionali più adeguate e preparate ad affrontare certi numeri e aspetti quali i rapporti con le banche, la ricerca di nuovi clienti, ecc. In un’ottica di crescita, è importante riconoscere che alcune competenze non si improvvisano.

Quali sono le condizioni in cui è possibile replicare il modello WBO?

La crisi e le chiusure di aziende hanno portato molte persone, prima dipendenti, a pensare a forme diverse di rapportarsi con il lavoro. Il WBO dà la possibilità alle persone di sperimentarsi come imprenditori, a partire dalle competenze che in precedenza hanno sviluppato come lavoratori. Nei momenti iniziali la cooperativa può essere fondamentale per creare un gruppo coeso e che vada nella stessa direzione. Anche il contesto territoriale è importante: in un’area, come la nostra (Garfagnana, ndr.) dove non vi sono molte opportunità economiche, le persone possono avere più spinta ad uscire fuori dai soliti binari per intraprendere strade nuove, come abbiamo fatto noi.

Crisi come opportunità, quindi, e legame con il territorio.

Esatto. Rispetto al legame tra impresa e territorio, chiudo con un dato per noi significativo: l’anno scorso, tra paghe e contributi, abbiamo distribuito nella nostra zona circa 620 mila euro. Questo è un dato semplice che deve far pensare all’importanza di fare impresa soprattutto all’interno di zone, come la Garfagnana, che sotto il profilo geografico e di infrastrutture presentano un gap rispetto ad altre aree più centrali della Toscana.

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La meglio gioventù (che aspetta un lavoro)

by Tommaso Rossi on 30 Maggio 2013

La XV indagine Almalaurea sulla condizione occupazionale dei laureati registra un ulteriore peggioramento del posizionamento dei giovani laureati all’interno del mercato del lavoro: aumenta il tasso di disoccupazione, mentre tra gli occupati si registra un aumento delle forme contrattuali a tempo determinato, e ciò avviene anche per quei giovani in possesso di lauree tradizionalmente considerate più ‘spendibili’, come ad esempio ingegneria informatica.

Tra gli occupati i dati mostrano tuttavia le migliori performance dei lavoratori in possesso di laurea rispetto ai diplomati, con un tasso di occupazione superiore di oltre 12 punti percentuali (76,6 contro 64,2) e una retribuzione media che, nel confronto, risulta superiore del 50% per gli occupati con laurea. Studiare conviene, quindi, e conviene ancora di più accompagnare il percorso accademico con uno stage curriculare di qualità, che accresce del 12% la probabilità di occupazione dei laureati ad un anno della conclusione degli studi rispetto a chi invece non vanta tale esperienza formativa. L’indagine smorza quindi quello che negli ultimi anni sembrava un quadro sempre più a tinte fosche per i giovani che puntavano sul cd. fattore ‘k’, quel capitale umano fatto di conoscenze teoriche e saper fare pratici appresi durante il percorso universitario.

Ciò ovviamente non cancella le problematiche del mercato del lavoro italiano ad ‘imbuto’, in cui le recenti riforme – in primis quella pensionistica – hanno di fatto ridotto il turnover raggiungendo ragionieristici obiettivi di riduzione della spesa pubblica, col risultato di trattenere al lavoro persone poco motivate (che solo fino a qualche mese fa avevano la prospettiva di poter andare in pensione) bloccando invece l’ingresso di forze giovani, più formate e motivate. Ciò è avvenuto nel mondo dell’impresa, ma in maniera evidente anche all’interno della Pubblica Amministrazione. Patetico persino pensare che alle condizioni attuali le imprese e le PA italiane possano raggiungere significativi aumenti dei livelli di produttività, fondamentali per realizzare quella CRESCITA così tanto evocata da soloni e burocrati delle istituzioni nazionali ed europee. Centrale resta l’esigenza di un taglio del costo del lavoro per le imprese, senza il quale fare impresa e creare sviluppo diventa difficile anche per l’imprenditore visionario à la Schumpeter.

Di tutto questo l’attuale classe dirigente deve dare conto, c’è una generazione che non può aspettare.

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La febbre da start up…qualcosa ha prodotto!

by Tommaso Rossi on 12 Aprile 2013

Quasi non se ne può più, ormai sembra che tutti siano diventati startupper, imprenditori innovativi e pionieri impavidi.

Ti giri per strada e qualcuno ti nomina di iniziative legate alle start up, di incontri con i venture capitalist, di incubatori tecnologici e di spazi per il coworking. Il nome straniero non aiuta, Start up non sembra possa divenire una parola simpatica e alla portata di tutti. Per intendersi, le Start up sono aziende che nascono da zero attorno ad un’idea innovativa. Sono state la formula americana del successo della Silicon Valley, esportata in molte parti del mondo e approdata anche in Italia. Il ministro Passera un anno fa ha presentato una legge specifica per il supporto alla nascita delle imprese innovative, e nel recente Cresci Italia del dicembre scorso, cosa rara, sono state inserite alcune agevolazioni fiscali.

Questi interventi normativi sono stati accompagnati da un’importante campagna informativa, promozionale e pubblicitaria legata al brand Start up. Sono nati blog specializzati, movimenti di opinione, associazioni, progetti imprenditoriali e un flusso imponente di informazioni. Poco male, anzi molto bene. Ma fortunatamente non solo questo. Ecco la buona notizia di un impegno che sta portando ad alcuni risultati, fortunatamente tangibili. Nei primi tre mesi dell’anno sono nate 307 start up e ai primi di aprile siamo a quota 453. Con questi chiar di luna, direi che anche se start up non è una parola simpatica, è bene tenercela stretta!

Link collegati:

H-FARM

Progetto RENA

WORKING CAPITAL

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