La condizione abitativa in Toscana, tra luci e ombre

by Tommaso Rossi on 16 Febbraio 2016

Il Rapporto dell’Osservatorio Sociale Regionale svela che il 92% degli assegnatari di alloggi popolari è di cittadinanza italiana. Migliora lo stato di salute del mercato immobiliare, mentre forti criticità permangono sul fronte degli sfratti.

Dati interessanti provengono dalla fotografia scatta dall’Osservatorio Sociale attraverso il IV Rapporto sulla condizione abitativa in Toscana: da un lato, nel corso del 2014, si è osservata una ripresa del mercato immobiliare, grazie alla crescita delle compravendita di immobili residenziali (+5,6%) sostenuta da prezzi ancora in calo e da una prima ripresa dei mutui concessi dagli istituti di credito (+14,9%); gli aspetti di maggiore criticità continuano a riguardare l’emergenza sfratti, con l’aumento dei provvedimenti (+2,3%) e, soprattutto, delle esecuzioni di sfratto (+15,5%). Confrontando i dati degli sfratti in Toscana con la popolazione residente, si osserva un provvedimento di sfratto ogni 269 famiglie (mentre il dato nazionale è di uno ogni 334 famiglie) e un’esecuzione ogni 494 famiglie (contro le 715 in Italia). Il peggior rapporto tra provvedimenti di sfratto emessi e famiglie residenti si registra nelle province di Prato (1/152) e Pistoia (1/217). Ancora non provengono segnali positivi dall’Edilizia: prosegue il calo di nuove costruzioni che, nel 2013 (ultimo dato disponibile), sono quasi dimezzate (-46,1%) rispetto all’anno precedente.

A fronte delle difficoltà segnalate rispetto al bisogno primario dell’abitazione, la risposta pubblica ha agito su diversi fronti: dal Fondo sociale per l’affitto (oltre 20 milioni di euro, di cui circa 8 stanziati dalla Regione), al Fondo nazionale per la morosità incolpevole, grazie al quale nel 2014 sono stati assegnati 3,7 milioni di euro ai Comuni capoluogo ed i Comuni ad alta tensione abitativa, e il “Fondo sfratti”, con 4 milioni di euro di stanziamento regionale finalizzati ad evitare l’esecuzione degli sfratti per morosità di famiglie in temporanea difficoltà. Quest’ultimo strumento, nel 2014, ha visto un tasso di copertura delle domande pari al 69,8% dei richiedenti (731 beneficiari); il contributo medio erogato è stato di 5.466 euro.

Particolarmente interessante è l’approfondimento contenuto nel Rapporto che, in continuità con gli scorsi anni, analizza il patrimonio di edilizia pubblica e le caratteristiche degli assegnatari degli alloggi. Il patrimonio Erp gestito dalle undici Aziende pubbliche per la casa operative in Toscana è composto da 49.361 unità immobiliari (cui se ne aggiungono 1.283 in costruzione), più del 55% delle quali concentrate a Firenze (25,8%), Livorno (16,9%) e Pisa (12,5%). In Toscana in media si ha un alloggio di edilizia residenziale pubblica ogni 33,2 famiglie, contro il dato nazionale di un alloggio ogni 34,8 famiglie.

Maggiore disponibilità di alloggi si ha a Livorno (1 alloggio ogni 18,7 famiglie), Massa Carrara (1 ogni 23,4), Pisa (1 ogni 29,2) e Firenze (1 ogni 29,6). Minore disponibilità a Pistoia (1 ogni 58,5) e Prato (1 ogni 57,4).

Le famiglie che in Toscana vivono all’interno di un alloggio Erp sono 47.602 per un totale di 115.708 persone (2,43 componenti per famiglia). In tutto rappresentano quasi il 3% dei residenti nella regione e il 18,3% delle famiglie che vive in affitto. Nel 92% degli alloggi almeno un assegnatario ha la cittadinanza italiana: tale dato sconfessa quindi senza possibilità di replica l’affermazione secondo cui l’accesso all’alloggio popolare sarebbe una prerogativa dei soli cittadini stranieri.

Nel 27,4% dei casi la famiglia che vive nell’alloggio è composta da una sola persona, in valori assoluti si tratta di 13mila famiglie  unipersonali. Di queste 1.783 sono con assegnatario di età superiore  ad 85 anni. Il 94,7% degli alloggi Erp risulta assegnato a inquilini con regolare contratto di locazione, mentre le occupazioni senza titolo/abusive rappresentano l’1,7% del totale, contro il 6,2% del dato nazionale.

Il quadro generale offerto dal Rapporto ci mostra quindi un leggero miglioramento di alcuni indici relativi al mondo dell’abitazione, anche se permangono forti criticità sul fronte degli sfratti. Il patrimonio Erp, in tal senso, rappresenta un’importante risposta alle difficoltà economiche delle famiglie, accentuatesi negli ultimi anni, tuttavia i dati relativi alle graduatorie ci mostrano come soltanto circa il 12-13% dei nuclei presenti all’interno delle graduatorie comunali (di durata triennale) riesce ad avere accesso all’alloggio popolare. Un problema in tal senso, comune all’intero Paese, riguarda il basso tasso di turnover che, nella sostanza, viene garantito soltanto alla morte degli occupanti degli alloggi. Oltre all’accrescimento del patrimonio abitativo di edilizia residenziale pubblico, una maggiore efficacia delle politiche dell’alloggio (in termini di risposta ai bisogni di un pubblico più ampio) dovrebbe essere garantita dal passaggio ad una logica di “transitorietà” dell’alloggio popolare, utile cioè a supportare il nucleo familiare all’interno di periodi di difficoltà e facilitarne il miglioramento delle condizioni economiche che potranno quindi consentire, allo stesso nucleo, di potersi rivolgere al mercato privato della locazione, “liberando” risorse che potranno essere utilizzate per altri soggetti in difficoltà.

Il IV Rapporto sulla condizione abitativa in Toscana, è scaricabile dal sito web dell’Osservatorio Sociale Regionale

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Alternanza scuola-lavoro: si può fare (da reteSviluppo)!

by Tommaso Rossi on 28 Gennaio 2016

Nel dibattito sulla “Buona Scuola”, che ha occupato buona parte dell’opinione pubblica sulla stabilizzazione del personale docente precario (tema indubbiamente importante, ma di ancor più forte impatto mediatico), è passato quasi in sordina il nuovo modello di alternanza scuola-lavoro previsto dalla riforma: rivolto a tutti gli studenti del secondo biennio e dell’ultimo anno degli istituti superiori, prevede obbligatoriamente un percorso di orientamento utile ai ragazzi nella scelta che dovranno fare una volta terminato il percorso di studio. Il periodo di alternanza scuola-lavoro si articola in 400 ore per gli istituti tecnici e 200 ore per i licei e si realizza sia attraverso attività dentro la scuola, che fuori da essa (nelle aziende, ad esempio).

Il nuovo modello intende avvicinarsi al cd. “Sistema Duale”, che vede la sua più nota applicazione all’interno del modello tedesco, dove il sistema di istruzione in alternanza è organizzato all’interno della scuola, Berufsschule, e dell’azienda. L’obiettivo è quello di colmare il gap, costantemente lamentato dal mondo produttivo, tra le esigenze professionali delle aziende e quelle detenute dai giovani in uscita dai percorsi scolastici. Allo stesso tempo il nuovo modello vuole essere più attrattivo nei confronti delle giovani generazioni, andando così ad impattare sul tasso di dispersione scolastico, che in Italia raggiunge una delle quote più elevate a livello europeo.

La sperimentazione del Sistema Duale nel nostro Paese consentirà, nel prossimo biennio, a circa 60 mila giovani di poter conseguire i titoli di studio con percorsi formativi che prevedono, attraverso modalità diverse, una effettiva alternanza scuola-lavoro: per una parte dei giovani studenti l’apprendimento in impresa avverrà tramite un contratto di apprendistato di primo livello, mentre per l’altra parte avverrà attraverso l’introduzione dell’alternanza “rafforzata” di 400 ore annue a partire dal secondo anno del percorso di istruzione e formazione professionale.

Anche reteSviluppo crede nella bontà di un modello che cerca di creare reali sinergie tra scuola, istituzioni e mondo produttivo: a tale scopo abbiamo sottoscritto un accordo, con il contributo di Confcooperative, che ci consentirà di ospitare – durante il prossimo mese di febbraio –  5 giovani del Liceo delle Scienze Umane, opzione Economico-Sociale, Niccolò Machiavelli di Firenze. Anche per noi quest’esperienza rappresenta una novità, avendo finora collaborato soprattutto con l’Università, tuttavia riteniamo che proprio il contatto con gli istituti superiori possa essere una sfida interessante e offrire possibilità di contaminazione e apprendimento reciproco tra la nostra realtà e quella della scuola superiore.

Cosa apprenderanno questi 5 ragazzi dall’esperienza con reteSviluppo? Anzitutto si confronteranno con la forma di impresa cooperativa e i suoi meccanismi di funzionamento, apprendendo – e sperimentando sul campo – alcune competenze strettamente legate ai nostri ambiti di attività: ricerca sociale ed economica, partecipazione e cittadinanza attiva, servizi alle imprese, comunicazione. Cosa chiederemo loro? Di essere curiosi, propositivi, di metterci in difficoltà nel rispondere alle loro mille curiosità, di ispirarci nuove idee.

Insomma, non vediamo l’ora di conoscerli. Voi state pure tranquilli, vi racconteremo com’è andata!

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Da operai a imprenditori, Workers Buyout in Garfagnana (LU): la storia di P.M.I.

by Tommaso Rossi on 23 Dicembre 2015

Chi ha mai sentito parlare di Workers Buyout (WBO)? In pochi, forse, e di certo l’utilizzo di inglesismi per indicare imprese in fallimento recuperate dai lavoratori non aiuta la conoscenza di un fenomeno che, complice la crisi economica, si è notevolmente sviluppato negli ultimi anni: ad oggi nel nostro Paese risultano presenti 69 WBO, concentrati soprattutto in Emilia-Romagna (20) e Toscana (14). Tale concentrazione territoriale (circa la metà dell’intero fenomeno) non pare casuale, ma va verosimilmente ricondotta alla particolare rilevanza che in tali regioni assumono i movimenti cooperativi, le cui caratteristiche connaturate al modello imprenditoriale bene si prestano alla strutturazione dei WBO.

In poche parole, Workers Buyout sta ad indicare un’operazione di “salvataggio” da parte dei dipendenti, che rilevano l’impresa per cui lavorano, in crisi economica o con difficoltà a gestire il ricambio generazionale: la NewCo nasce con l’acquisizione del capitale sociale della vecchia impresa da parte dei propri dipendenti, siano essi dirigenti, impiegati e/o operai, i quali finanziano l’intervento attraverso risparmi personali, il TFR e/o l’anticipo dell’indennità di mobilità.

P.M.I. (Produzione Montaggio Impianti) è una di queste realtà, cooperativa nata a fine 2011 sulle ceneri di un’azienda operante lungo tutta la filiera della produzione impianti, dalla progettazione fino alla commercializzazione. Abbiamo intervistato Ercolano Toni, uno degli 11 coraggiosi dipendenti che ha deciso di diventare imprenditore e cooperatore.

Come è nata l’idea di costituire un WBO?

Nel momento in cui l’azienda per cui lavoravamo è stata messa in liquidazione coatta: un ramo d’azienda era stato rilevato da un grosso player ligure, che allo stesso tempo ci ha spinto per costituire una nuova impresa operante sul lato produzione, in modo tale che non andassero perse le maestranze e le competenze sviluppate negli anni. Abbiamo quindi deciso, in 11 persone tra i 25 dipendenti della vecchia azienda, di mettere su una cooperativa, che ha iniziato a lavorare grazie alle commesse dell’azienda ligure che ci aveva spinti verso il WBO: ancora oggi costituisce il nostro principale committente, ma stiamo lavorando per differenziare sempre più il portafoglio clienti.

Nella fase di costituzione dell’azienda, abbiamo avuto un importante aiuto dalla Lega delle Cooperative, che ci ha indirizzato verso la strada da intraprendere. Il capitale iniziale per costituire l’azienda è venuto dall’anticipo della mobilità.

Prima di questa esperienza, aveva mai pensato all’idea di mettersi in proprio?

Mai, ero sempre stato un dipendente; all’inizio lavoravo in officina e poi mi sono occupato dell’ufficio acquisti.  Mai poi avrei pensato di poter avviare un’esperienza in cooperativa, invece mi sono dovuto ricredere, perché in casi come il nostro la cooperativa ha tirato fuori il meglio delle persone, per la costruzione di una logica imprenditoriale tra persone che, fino a quel momento, avevano sempre lavorato come dipendenti.

Quali sono stati i numeri della vostra crescita?

Siamo partiti nel 2012 con un piccolo piano industriale da 800 mila euro, mentre quest’anno dovremmo avvicinarci a 2 milioni. Sulla base di questa crescita stiamo lavorando ad un nuovo piano industriale, sia pensando ai ricambi di coloro che si avvicinano alla pensione, sia per effettuare nuovi investimenti per macchinari. Dal punto di vista delle risorse umane, siamo partiti in 11 soci, mentre oggi siamo 12 soci lavoratori, 2 dipendenti a tempo indeterminato e 3 collaboratori con contratto di apprendistato. Il nostro obiettivo è quello di allargare la nostra base sociale a tutti i lavoratori, perché ciò crea un altro modo di vivere e sentire l’azienda in cui si lavora, crea responsabilità da parte di tutti, dagli operai fino alle figure che si occupano della parte più manageriale.

Quali sono le vostre prossime sfide?

Come dicevo, stiamo lavorando ad un nuovo piano industriale. Un’ulteriore sfida potrebbe essere data dal ripensare alla nostra organizzazione, nel prevedere l’inclusione di figure professionali più adeguate e preparate ad affrontare certi numeri e aspetti quali i rapporti con le banche, la ricerca di nuovi clienti, ecc. In un’ottica di crescita, è importante riconoscere che alcune competenze non si improvvisano.

Quali sono le condizioni in cui è possibile replicare il modello WBO?

La crisi e le chiusure di aziende hanno portato molte persone, prima dipendenti, a pensare a forme diverse di rapportarsi con il lavoro. Il WBO dà la possibilità alle persone di sperimentarsi come imprenditori, a partire dalle competenze che in precedenza hanno sviluppato come lavoratori. Nei momenti iniziali la cooperativa può essere fondamentale per creare un gruppo coeso e che vada nella stessa direzione. Anche il contesto territoriale è importante: in un’area, come la nostra (Garfagnana, ndr.) dove non vi sono molte opportunità economiche, le persone possono avere più spinta ad uscire fuori dai soliti binari per intraprendere strade nuove, come abbiamo fatto noi.

Crisi come opportunità, quindi, e legame con il territorio.

Esatto. Rispetto al legame tra impresa e territorio, chiudo con un dato per noi significativo: l’anno scorso, tra paghe e contributi, abbiamo distribuito nella nostra zona circa 620 mila euro. Questo è un dato semplice che deve far pensare all’importanza di fare impresa soprattutto all’interno di zone, come la Garfagnana, che sotto il profilo geografico e di infrastrutture presentano un gap rispetto ad altre aree più centrali della Toscana.

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Tommaso RossiDa operai a imprenditori, Workers Buyout in Garfagnana (LU): la storia di P.M.I.

Sharing economy, solo una moda passeggera?

by Tommaso Rossi on 11 Novembre 2015

La Sharing economy, o economia della condivisione, può essere definita un paradigma economico basato non sul concetto di proprietà, ma su quello di accesso e riuso di beni, risorse e servizi sottutilizzati. All’interno di questo paradigma, saltano i classici ruoli detenuti da imprese e consumatori, con questi ultimi che diventano soggetti attivi anche nella fase di produzione e vendita di un bene e/o servizio. Uber e BlaBlaCar (mobilità), Airbnb e Guide Me Right (turismo) sono soltanto alcune delle piattaforme digitali di Sharing economy più conosciute ed utilizzate, rispetto alle quali è nel frattempo nato un acceso dibattito sulla legittimità di tali soggetti ad operare sul mercato in condizioni che i critici definiscono di concorrenza sleale.

L’economia della condivisione non è un fenomeno recente, basti pensare alle banche del tempo – grazie alle quali le persone possono reciprocamente scambiarsi attività, servizi e saperi – o a forme di baratto che consentono un nuovo ciclo di utilizzo per beni non pienamente sfruttati. Il fenomeno tuttavia, complice anche la crisi economica esplosa nella seconda metà del 2008, ha conosciuto una nuova ribalta inizialmente grazie soprattutto a forme organizzative nate dal basso, come i Gruppi di Acquisto Solidali (GAS), le Social street e i coworking.

Il portentoso sviluppo della Sharing Economy osservato negli ultimi anni ha beneficiato soprattutto della possibilità, offerto dalle tecnologie digitali e dai social media, di abbattimento delle distanze fisiche tra domanda e offerta, le quali hanno dato la possibilità di incontrarsi attraverso una piattaforma presente sulla rete Internet. Proprio il World Wide Web ha consentito ad alcune di queste piattaforme di realizzare tassi di crescita sconosciuti per la maggior parte delle imprese tradizionali: Airbnbn, che permette a privati proprietari di immobili di affittare gli stessi ad uso turistico, offre oggi alloggi in oltre 134.000 città sparse in 192 Paesi del mondo. La società, fondata nel 2007, può contare su un’offerta ricettiva di un milione e mezzo di alloggi in tutto il mondo (pur non essendo proprietaria di nessuno di essi), surclassando catene alberghiere internazionali quali Marriott, Hilton e Intercontinental. L’Italia è il terzo mercato mondiale dopo Usa e Francia: sono 180 mila in totale gli immobili disponibili, di cui 18.000 a Roma e 14.000 a Milano, mentre Firenze ne ospita quasi 5.800.

Come accennato, soggetti quali Uber e la stessa Airbnb sono di recente finite sotto l’occhio del ciclone, accusate di concorrenza sleale, sfruttamento di lavoro irregolare ed evasione fiscale. Ciò che è certo, è che queste piattaforme sono nate e cresciute in un contesto normativo che non prevedeva leggi specifiche atte a regolamentarle, anche se la Commissione Europea ha di recente lanciato una road map per normare il settore, non in un’ottica restrittiva ma di tutela delle principali regole della concorrenza e della normativa fiscale.

I dibattiti sulla Sharing economy si vogliono solitamente ridurre all’essere pro o contro di essa, spesso dimenticando che l’economia collaborativa è fatta di diverse sfaccettature, a partire dai modelli in cui il profitto resta il fine principale (Uber, Airbnb) fino a quelli in cui, di converso, le finalità solidaristica e di creazione di community orizzontali prevalgono (social street, co-housing sociale, banche del tempo, ecc.). Ciò che accomuna queste diverse esperienze, tuttavia, è il ruolo riconosciuto all’utente/cliente, che si fa soggetto attivo nella produzione del bene, nella creazione della community di riferimento e nel processo di accreditamento sociale che caratterizza le diverse piattaforme. Allo stesso tempo, poi, appare chiaro che la Sharing economy non costituirà un fuoco fatuo, quanto piuttosto un nuovo modo di intendere le relazioni economiche e sociali, che probabilmente non soppianterà il tradizionale modello capitalistico, ma che sicuramente si affiancherà ad esso .

Il tema è molto ampio, probabilmente troppo per essere affrontato in maniera esaustiva all’interno di un articolo. Per questo motivo torneremo presto sull’argomento, anche interpellando alcune delle piattaforme più conosciute nel panorama italiano della Sharing Economy.

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Tommaso RossiSharing economy, solo una moda passeggera?

Rimesse cinesi, ogni giorno Prato perde mezzo milione di euro

by Tommaso Rossi on 24 Giugno 2014

Le aziende cinesi a Prato realizzano una produzione annuale che varia dai 2 ai 2,3 miliardi di euro, secondo uno studio condotto da Irpet, con un contenuto di valore aggiunto variabile tra i 680 e gli 800 milioni di euro, vale a dire tra il 10,9% e il 12,7% del totale del valore aggiunto dell’intera provincia, ma più della metà se consideriamo il solo settore del tessile-abbigliamento. L’imprenditoria cinese a Prato negli anni è cresciuta non soltanto nel settore dominante del territorio, allargandosi anche al commercio e ai servizi.

Prato è anche la provincia toscana in cui le rimesse cinesi raggiungono i valori più elevati: dal 2007 al 2009, in media, 423 milioni di euro l’anno hanno lasciato il territorio diretti verso la Cina, cifra che si è abbassata nel triennio 2010-2012 ad una media annuale di 196 milioni di euro, anche se occorre dire che basterebbe far partire fisicamente le operazioni da un’altra provincia per mascherare i flussi di denaro in uscita da Prato. Ad ogni modo tra il 2005 ed il 2012 la provincia laniera ha visto crescere le rimesse verso la Cina del 930%. La fuga di capitali all’estero (capital flight) provoca inevitabilmente un prosciugamento di risorse a capacità produttive del territorio, è del resto un fenomeno molto più complesso di quanto possa apparire dalla sua definizione: ogni anno escono dall’Italia capitali per decine e decine di miliardi di euro.

Le infografiche di ReteSviluppo

Un’operazione a Prato della Guardia di Finanza, chiamata, non a caso, “Cian Liu”, (Fiume di denaro), ha messo in luce quello che è un fenomeno in continua espansione, fondato sul pericoloso binomio evasione fiscale/riciclaggio. L’indagine ha infatti a suo tempo intercettato un vero e proprio fiume di denaro indirizzato dall’Italia (tramite San Marino) verso la Cina per quasi tre miliardi di Euro, movimentato tramite una società di money transfer con sub agenzie sparse in tutta Italia ed in particolare in Toscana. Nel 2008, per comprendere l’entità del fenomeno, uno degli evasori coinvolti nell’inchiesta aveva dichiarato redditi per 17 mila euro e intanto spediva in Cina quasi 2 milioni di euro.

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