Democrazia partecipativa: nuova linfa per la dimensione pubblica delle decisioni

by Tommaso Rossi on 8 Marzo 2016

I cambiamenti cui sembrano andare incontro negli ultimi anni le democrazie moderne, in modo particolare la perdita di centralità delle forme di rappresentanza e di partecipazione, hanno finito inesorabilmente con il far emergere nuove idee di riforma della pratica democratica come il concetto di democrazia partecipativa. Un orientamento da cui hanno preso avvio approfondimenti ed approcci teorici ampi ed articolati ma anche diffuse e diversificate pratiche “partecipative”.

In letteratura vi è anche una ampia discussione riguardo al significato di democrazia partecipativa così come alla distinzione terminologica rispetto all’espressione democrazia deliberativa . Non è tuttavia obiettivo di questo articolo approfondire le differenze terminologiche tra le due espressioni quanto sottolineare soprattutto l’emergere di una nuova e per certi versi intermedia forma di democrazia tra quella rappresentativa e quella diretta che definiamo per semplicità in questo articolo partecipativa.

Per democrazia partecipativa si intende un modello in cui la partecipazione è assunta quale metodo di governo della cosa pubblica, in base a criteri di inclusione, collaborazione e stabilità del confronto fra istituzioni e società civile: in particolare essa si configura come un’interazione entro procedure pubbliche (amministrative, normative, di controllo) fra società e istituzioni, che mira, mediante forme collaborative di gestione dei conflitti, a produrre di volta in volta un risultato unitario in funzione del miglior perseguimento dell’interesse generale.

Secondo Umberto Allegretti, nella democrazia partecipativa le persone sono presenti come singoli e attraverso associazioni, e agiscono autonomamente nell’istruttoria, nella consultazione e nella stessa decisione in seno però a procedure istituzionali riconosciute: “cittadini comuni” che intervengono attraverso autocandidatura o su chiamata attraverso sorteggio o con altre modalità imparziali scelte dall’istituzione che conduce il processo.

Solitamente i cittadini definiscono delle raccomandazioni ma è l’istituzione ad assumere la vera e propria decisione finale. Per Allegretti pertanto la democrazia partecipativa implicherebbe un ruolo importante da parte delle istituzioni che non perderebbero il loro ruolo decisorio ma che rimarrebbero al contrario centrali all’interno del processo. Dall’altra parte i cittadini agirebbero come legittimi protagonisti, autonomi e capaci di influenzare la decisione; non si tratterebbe delle classiche procedure della democrazia diretta o delle esperienze di autogestione in cui da soli i cittadini decidono in merito ad una specifica tematica. Si assisterebbe pertanto ad una situazione in cui, all’interno di una procedura organizzata, le due componenti (cittadini ed istituzione) sarebbero reciprocamente riconosciuti.

Nonostante le potenzialità della democrazia partecipativa, altrettanto, diffuse sono le perplessità dovute anche al fatto che, in diverse occasioni, sono state nutrite attese che poi hanno avuto difficoltà ad essere realizzate concretamente. È opportuno pertanto interrogarsi tanto sui punti di forza che sui punti di debolezza di tale approccio e delle esperienze realizzate, in modo da alimentare le opportunità di cambiamento offerte da questo nuovo orientamento che sembra in grado di garantire nuova linfa alla dimensione pubblica delle decisioni. In un periodo in cui la politica e gli organi di rappresentanza sembrano aver perso il loro ruolo storico, queste nuove forme di partecipazione potrebbero infatti garantire una rinnovata partecipazione collettiva con forme e modalità nuove.

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L’ascolto attivo nei processi partecipativi

by Tommaso Rossi on 4 Gennaio 2016

Far partecipare non significa soltanto promuovere un processo partecipativo ma significa anche utilizzare e sviluppare metodologie inclusive adeguate al coinvolgimento dei cittadini.

Tra queste abbiamo deciso di parlare in questo articolo dell’”ascolto attivo”, una metodologia teorizzata in Italia da Marianella Sclavi, docente di etnografia urbana presso il Politecnico di Milano, nel suo libro “Arte di ascoltare e mondi possibili”.

Secondo Sclavi, l’ascolto per essere “attivo” deve avere a che fare con le dinamiche dell’umorismo e delle emozioni: deve essere aperto e rivolto non solo verso l’altro, ma anche verso se stessi, per ascoltare le proprie emozioni, per essere consapevoli dei limiti del proprio punto di vista.

L’ascolto attivo parte dal presupposto che, nell’interazione, vi sono “archi di possibilità” che diamo per scontati e dei quali non siamo consapevoli all’interno dei quali si inscrivono i nostri comportamenti. Essere consapevoli di queste “cornici”, di cui siamo parte e che condizionano il nostro modo di vedere e di agire, è un punto strategico dell’ascolto attivo.

Uno degli assunti fondamentali di questa metodologia è infatti il seguente: “Se vuoi comprendere quello che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.” L’Ascolto Attivo significa passare dalla contrapposizione “giusto-sbagliato”, “io ho ragione-tu hai torto”, “amico-nemico” ad una situazione in cui ci si pone nella condizione di capire l’interlocutore. Questa metodologia ribalta l’approccio tradizionale del buon osservatore che dovrebbe essere passivo, neutrale; propone al contrario la necessità di abbandonare un approccio razionale nel quale le emozioni sono considerate come disturbatrici della conoscenza e di sposare al contrario un atteggiamento attivo, aperto al dialogo, disposto a mettere in discussione le proprie certezze, attento agli interessi in gioco invece che alle posizioni, dando molta importanza alle percezioni soggettive dell’altro.

Le basi teoriche di questo approccio sono state delineate da studiosi che sostengono la priorità dell’ascolto in un paradigma dialogico (Bachtin, Bube, Heidegger) e dai teorici dei sistemi complessi (Ashby, Bateson, Emery e Trist, Kurt Lewin, Von Foerster).

L’ascolto attivo è sicuramente un approccio complesso ma fondamentale per avviare processi inclusivi che non si limita a registrare opinioni o punti di vista dei cittadini o degli stakeholder ma a creare un vero e proprio dialogo cercando di capire ciò che essi cercano di esprimere.

Vi sono una pluralità di tecniche di ascolto attivo: l’outreach, letteralmente “raggiungere fuori”, ovvero andare a consultare le persone piuttosto che aspettare che queste lo facciano spontaneamente (distribuzione materiale informativo a casa o presso i centri di aggregazione, articoli sui giornali o spot informativi, interventi informativi e di sensibilizzazione all’interno di gruppi specifici ecc..); “l’animazione territoriale” ovvero promuovere la sensibilizzazione e la partecipazione degli attori locali intorno a dei problemi comuni raccogliendo delle informazioni quantitative e qualitative; organizzare “camminata di quartiere” ovvero passeggiate per il quartiere con le persone interessate (piccoli gruppi di cittadini, professionisti, tecnici, funzionari); aprire “punti o sportelli” informativi sul territorio; riunire piccoli gruppi per mettere a fuoco o analizzare un argomento (“focus group”) o per trovare soluzioni creative ai problemi (“brainstorming”, letteralmente “tempesta di cervelli”). L’importante è dare rilevanza alla fase d’ascolto soprattutto nella fasi preliminari di un percorso partecipativo, quando si tratta di avviare un processo, individuare gli attori e le tematiche su cui concentrarsi.

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