Estratto dall’intervista a Salvatore Natoli, a cura di Massimo Campedelli, uscita su Animazione Sociale (n. 275, agosto/settembre 2013) – “Tempo di imprese che producono beni per il territorio”
Imprese sociali, servizi e associazioni si chiedono come riposizionarsi dentro la crisi che mette in dubbio non solo il modello economico-finanziario finora conosciuto, ma anche lo stile di vita e di consumo che lo ha caratterizzato. Questa connessione tra economia e sviluppo è messa in evidenza da Salvatore Natoli, filosofo, descrivendo l’idea di crescita -forza propulsiva dell’economia- come intimamente connessa con il concetto di sviluppo; “senza crescita non c’è lavoro, senza lavoro non si produce consumo e senza consumo l’economia non produce ricchezza e benessere”.
Nel XX secolo la possibilità di aumentare il livello di ricchezza complessiva di un paese era agganciata all’aumento dei consumi perché allora era possibile ancora “allargare” i consumi.
“ In quegli anni, il Paese [Italia] ha avuto una grande possibilità di consumo perché esistevano enormi aree povertà e quindi era possibile creare, inventare il consumatore, i consumatori”.
Oltre all’aspetto economico, negli anni del dopoguerra in Italia si assisteva anche a una rinascita della società civile, dopo la repressione fascista. Si pensi alla Costituzione, che viene scritta in quegli anni in una “prospettiva etica di sviluppo”.
Secondo questa lettura i consumi hanno liberato il nostro Paese dalla schiavitù della necessità: la possibilità di consumare ha affrancato la popolazione italiana dal bisogno, dalla malattia e dalla mancanza di igiene. Anche negli anni successivi, quando si è sentita la necessità di saziare bisogni più complessi, con beni più sofisticati, si pensi alla lavatrice, si è sempre risposto a una necessità di liberazione, in questo caso delle donne dalla fatica dei lavori domestici.
Ma allora, questo meccanismo, quando si è inceppato? Quando abbiamo iniziato a porci delle domande sulla sostenibilità del sistema, proiettandoci in una serie interminabile di dilemmi come quello riguardante il caso ILVA. Si deve scegliere tra la salute e il lavoro?
Ma se da una parte ci rendiamo conto dell’insostenibilità di questo modello di sviluppo, dall’altra troviamo forti resistenze per modificarlo. La difficoltà principale risiede nella trasformazione del concetto di bisogno, che è passato dall’essere inteso come necessità di liberazione da qualcosa, a essere considerato come una condizione naturale.
“Se negli anni cinquanta impiantare uno scaldabagno era liberarsi da un bisogno (fare una doccia), oggi lo scaldabagno è una “condizione naturale”, come se ci fosse stato sempre”.
Questo meccanismo di naturalizzazione dei bisogni è incentivato dall’industria stessa, immettendo sempre nuovi prodotti che, drogando la società, rendono dipendenti al loro consumo. Cambia così il concetto di libertà, che “non è la capacità critica di scelta, ma avere o no accesso a consumi che spesso rispondono a bisogni non essenziali, ormai naturalizzati”.
Se tutti i mali non vengono per nuocere, la crisi del 2008 potrebbe essere un’occasione per mettere in discussione il modello economico e di vita che l’ha determinata. “Bisogna approfittare dell’arretramento dei consumi per pensare a stili di vita diversi, ridefinendo l’ordine delle necessità, uscendo dalla condizione di consumatori passivi…per diventare consumatori attivi”. Dobbiamo tornare al senso critico insito nel concetto di scelta che è racchiuso a sua volta nel concetto di libertà.
Per incentivare un consumo consapevole e critico non basta educare. È necessario incidere anche sui sistemi di produzione. Il territorio può essere il livello più adatto per mettere in atto questo tipo di mutamento, perché permette di capire più facilmente quanto un investimento possa essere vantaggioso.
“Abbiamo bisogno di imprese che lavorino su problemi locali”.
A questo punto arriviamo a esporre il concetto di impresa sociale. Va innanzitutto detto che, se da una parte ogni impresa è sociale perché comunità di lavoratori titolari di diritti, dall’altra non è detto che il prodotto dell’impresa sia sempre sociale. È questo il fattore discriminante. Come dice Natoli, “produrre sostegno sociale non vuol dire andare incontro a una scelta aleatoria di quel che si può o si vuole comprare o meno, ma soddisfare un bisogno sociale reale di “questo” territorio”. É questo che fa la differenza tra un sistema di sostegno all’handicap e un’impresa che fabbrica lenti a contatto. Un problema di handicap non può essere trasferito come un’occhiale, che può essere prodotto e venduto in tutto il mondo. “Il bene sociale è soddisfare i bisogni del territorio che esigono una soluzione qui e ora perché non “trasferibili”, delocalizzabili come altre produzioni”.
L’impresa che vuole qualificarsi come sociale ha anche l’importante compito di generare “beni di relazione”, deve cioè creare dei “sistemi di amicizia”, cioè “possibilità in cui le persone possano stare insieme, … [e possano] sviluppare azioni di vita collettiva, movimenti associativi in cui il rapporto con l’altro diventa un rapporto di reciproca generosità”. Per rendere tutto questo reale si avverte la necessità di costruire spazi pubblici.
Per attivare questa serie di processi si fa riferimento a una politica orizzontale, un modo di fare politica cioè che vede i cittadini impegnati nella loro funzione di “pressione per ripensare modelli di sviluppo e di impresa … che deve essere continua” e i rappresentanti come attori che recepiscono in modo attento questa pressione che li guiderà nelle proprie scelte.
Per concludere Natoli ci ricorda che
“la caratteristica delle democrazie è che non sono nelle condizioni di eleggere i migliori, ma possono “revocare i peggiori”. La competenza democratica non ha la capacità di identificare il meglio, la capacità delle democrazie è risanarsi.” .
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